giovedì 29 settembre 2011

Una strana allegria - quattordicesima puntata


Prossimo post lunedì 3 ottobre







Irene contestava la necessità di dire qualche cosa su di noi, asserendo che il Magnaga ci aveva già presentati. Accordato. Ciò detto almeno una frasettina per posizionarsi me la sarei spesa.
 E avrei cercato di mettere in buona luce ciò che avevamo fatto per il Magnaga e per altre aziende simili.
La discussione ci prese quasi un’ora, tempo ben investito se mi avesse aiutato a guadagnarmi la fiducia del cliente. Lo avrei sperimentato il giorno seguente.
La giornata era arrivata al suo mezzo. Ancora calda in quell’ottobre che si sforzava di assomigliare a maggio. Si poteva stare ancora in terrazza, il mio ufficio estivo. I due tavoli da picnic, eleganti e sobri, erano coperti da fogli e appunti: più il segno  di aspirazioni che il sintomi di occupazioni.  Guardandoli non potei fare a meno di sentirmi contento. Per quanto fosse assurdo, non ero preoccupato. Tutt’altro. Come se presagissi qualche cosa, ma senza la follia ottimistica di chi recita a se stesso quelle frasi idiote con le quali i propagatori di pensiero positivo invitano ad avvolgersi. Piuttosto con un’ allegria radicata: quella sicurezza che da bambini ci prendeva quando pensavamo che, per quanto in difficoltà si fosse, ci sarebbe sempre stato qualcuno –papà, mamma- che ci avrebbe mostrato la strada. E ci avrebbe tenuto fuori dai guai. Ho sempre desiderato realizzarmi un quadretto che mostri i gigli dei campi e gli uccelli del cielo, colpito da quel passo del Vangelo che li addita come esempi di fiducia. Sono sicuro che alzare lo sguardo e vedere una simile immagine mi restituirebbe al cuore quella pacatezza che a volte sfugge.
Perché ognuno di noi ha immagini che lo ispirano e gli muovono dentro qualche cosa che lo rassicura e lo induce ad agire.
Trascorsi il pomeriggio immerso in pensieri e scrittura. Amo molto scrivere e mettere su carta, ancorché ormai virtuale, mi aiuta a riflettere e a mettere ordine. Faccio uso di strumenti che indirizzano le idee e le configurano in alberi, mappe, grappoli così da poter essere più facilmente comprese e spiegate. Sono un visuale e non solo tendo ad esprimermi per immagini, ma anche a catturare la conoscenza più facilmente se è sotto forma di disegno o schema. 

mercoledì 28 settembre 2011

Le ultime tre domande - tredicesima puntata


Prossimo post venerdì 30 settembre


Quarta domanda: di che cosa vuoi parlarmi oggi e perché? Non iniziare ad imbonirmi con queste frasi molto americane: sì, ma da serial di provincia. “Ho una buona notizia per lei”. La migliore sarebbe, se inizi così, che mi annunci che hai deciso di andartene subito! Sii professionale. Dimmi quali sono i punti che hai previsto di affrontare oggi. Perché hai previsto qualcosa. Lo spero almeno. Non vorrai farmi credere che sei venuto da me senza avere in mente di che cosa mi vuoi parlare? Che ci hai pensato solo mentre alla reception attendevi innervosito che mi decidessi a farti salire? Che hai fatto mente locale solo salendo le scale? Sarebbe veramente squalificante per te. E allora di che cosa vuoi che parliamo? Ma soprattutto perché vuoi che ne parliamo? Che valore c’è per me nell’affrontare con te questo discorso? Perché se l’interesse è tutto tuo, mi spiace carissimo, ma quella è la porta. Il tempo è denaro! E il mio costa e vale più del tuo. Quindi, veloce, essenziale, efficiente: fammi una agenda motivata e avrai guadagnato qualche punto.

E poi, quinta domanda, quanto mi costerà tutto questo? Dieci minuti? Un’ora? Tutto il giorno? Devo programmare io. Non amo sorprese. E non amo furti. Non venirmi a dire “le rubo solo cinque minuti”. Se devi rubare, vai altrove. Non qui. Io non mi faccio sottrarre tempo. Nemmeno lo regalo (“ha da regalarmi pochi minuti?”). Quello che posso fare e farlo fruttare (“nella mezz’ora che le chiedo di investire con me…”). Ecco, questo mi piace. Sarà una parola un po’ stirata, lisa, ma fa sempre il suo effetto. Perché, come diceva Nanni Moretti, “le parole sono importanti!”. Sii preciso: se dici mezz’ora che mezz’ora sia. Se mi interessa, sarò io a chiederti di continuare.

E infine, sesta domanda, credi che io sia qui a fare da tappezzeria? Che non conti? Mi vuoi in qualche modo coinvolgere? Che parte avrò io in tutto questo? Vuoi chiedermi se sono d’accordo con quello che mi proponi o dai per scontato che la tua abilità e il tuo fascino mi abbiano irretito al punto da non poter che cadere ai tuoi piedi come i naviganti alle sirene? Chiedimi se voglio procedere così o se intendo modificare i tuoi piani. Almeno mi rendi felice.

Riportando all’animo questi quesiti, riflettevo su come impostare i primi istanti davanti a Parioletti con l’aiuto di Irene.

lunedì 26 settembre 2011

Le prime tre domande - dodicesima puntata

Prossimo post mercoledì 28 settembre



La prima è: chi sei e perché dovrei darti retta? Ho così poco tempo, specie oggi, per quale ragione dovrei sprecarlo con te? Dammi una motivazione valida per non alzarmi da questa sedia subito e congedarti con disonore! Senza esagerare però, perché non voglio né ascoltare una tua dettagliata biografia, né tantomeno essere sottoposto ad un noioso ed irritante auto-elogio. Non voglio avere a che fare con qualcuno che ostenta di essere superiore a me: e che poi lo sia realmente è tutto da dimostrare. Dimmi dunque quelle quattro sintetiche cose che mi permettano di capire che sei all’altezza delle mie aspettative, e mia, e che non sto perdendo tempo.

La seconda è: che cosa sai di me e della mia azienda? Ti sei preparato oppure stai facendo il giro della tentata vendita “signora quante mozzarelle le lascio?” come un piazzista col suo camioncino? E non sai neppure chi siamo, che cosa facciamo o chi sia io, soprattutto chi sia io, perché io mi amo, io mi stimo, io mi vanto, magari sommessamente, magari inconsciamente, ma mi vanto e se tu non sai nulla di me, sono guai ragazzo. Dunque, come ti sei preparato? Hai fatto i compiti a casa? Hai navigato alla ricerca di notizie che puoi, ora, con delicatezza e senza ostentazione, ricordarmi? 

La terza è: chi siete? Perché pensate di poterci essere utili? Posso anche credere che sei in gamba: tu. Ma la tua azienda? Come può aiutarmi? E non venirmi a raccontare tutta quella serie di favole infinite in cui mi dici che perseguite l’eccellenza, che il vostro servizio clienti è impeccabile, che fate leva sul miglioramento continuo, che soddisfate ogni richiesta in ogni momento in ogni parte del mondo. Sarà vero ma: primo, me lo dicono tutti per cui non saprei neanche più distinguervi; secondo è così trito e liso, che sembra la sbiasciatura di una vecchietta che svende il rosario a una recita sfatta e indisponente. Non irritarmi: stupiscimi. Trova una frase ad effetto, che mi faccia sporgere avanti sulla sedia e magari interromperti per farti una domanda in più. Perché allora ti dimostrerò che mi hai preso, che hai catturato la mia attenzione. 




sabato 24 settembre 2011

L'analisi del cliente - Undicesima puntata

Prossimo post lunedì 26 settembre



Quindi, insieme ad Irene cercai di assemblare quella traccia, ritagliata sulle possibili aspettative del Parioletti, che mi avrebbe permesso di rispondere alle sei domande inespresse del cliente. Già perché ogni cliente, sia che ti abbia chiamato sia che sia stato in qualche modo convinto dalla tua capacità a riceverti, nel momento in cui ti vede si pone inevitabilmente sei domande alle quali si attende risposta nei primi momenti dell’incontro.
Perché, comunque sia, qualunque sia la situazione, noi sottoponiamo ad un giudizio inappellabile la persona che incontriamo, anche se talvolta questo viene nascosto al nostro conscio da una educazione morbida e suntuosa. La quale ci fa affermare che dobbiamo sempre cercare di capire gli altri e dare loro una seconda possibilità. Il che, tra le righe, già esprime la valutazione che la prima possibilità è stata sprecata.
Non voglio certo negare che lo sforzo di entrare in empatia con l’interlocutore non sia spesso premiato. Certamente è importante, ed utile, sporgersi verso l’altro, sospendere il giudizio e mettersi realmente all’ascolto. (nota: sono perfettamente consapevole di avere messo in fila nell’ultima frase più luoghi comuni di quanto Moratti non abbia assunto allenatori all’Inter. Conto sulla capacità di infrangere la barriera della banalità per addentrarsi nelle caverne del significato).
Importante ed utile sì, ma non deve diventare un alibi. Perché è questo che spesso capita. Se una relazione non funziona si tende ad attribuirne la causa all’insensibilità dell’altro, spesso adducendo come conferma il turbamento della propria sensibilità, che si ritiene accesa e inesauribile. Di fatto si rivela così solo la presunzione di chi declina la delicata emotività esposta all’ambiente solo alla prima persona, esponendo alla condanna degli altri un egoismo aggravato dal fatto di essere ignoto all’ego stesso. Egoista ignorante.
Per questa ragione chi ha a cuore la costruzione di un amore –ma sì, chiamiamola così per allinearci a Ivano Fossati- non deve avere paura di veder “tremare le vene e i polsi” e deve essere in grado di abbandonare i propri schemi per addentrarsi con coraggio nel territorio dell’interlocutore. Magistrale la sintesi con cui uno scrittore comasco, morto anni fa, descrisse l’essenza della comunicazione limitandosi a ribaltare un luogo comune, una di quelle frasi lise e insipide che si ripetono per riempire i silenzi stirati, dandole così una forza violenta nuova e squillante: “lo dica pure con parole mie”. Davvero Pontiggia era letterato capace di spremere le parole per distillarne il senso celatovi dalla sapienza primitiva.
Ne consegue quindi che diventa irrinunciabile dare risposte immediate alle sei domande del cliente, così da iniziare quel percorso che, attraverso l’apertura di un credito di fiducia, potrà condurre al paradiso di ogni venditore: la tanto agognata, e spesso fraintesa, partnership. Che nel mondo commerciale di oggi ha assunto il posto di quella che nell’immaginario medioevale era l’araba fenice: che ci sia ognuno lo dice, dove sia nessun lo sa.
Ma quali sono queste sei famigerate domande che ogni cliente, -oso: ogni persona-  si pone nel momento in cui conosce, o è costretto a conoscere, per la prima volta un nuovo interlocutore?


mercoledì 21 settembre 2011

Irene sa come - Decima puntata

Prossimo post sabato 24 settembre



Irene invece sa questionare le mie assunzioni e soprattutto sa superare quella mia iniziale freddezza, intrisa di superbia, che con gentilezza compassata le rimanda espressioni di delusione e stupore, mascherando apparentemente un senso di lesa maestà che lei riesce sia a cogliere sia a superare irridendola con quel suo sguardo limpido e luminoso che mi ha rivelato molto di lei nel giorno in cui le proposi di venire a lavorare con me. E’ in qualche modo per me una sorta di coscienza esterna, con la quale battaglio sottilmente, e che mostra una pazienza materna nei miei confronti che mi stupisce ogni giorno di più. E che non so se e come riesco a ricambiare.
In effetti mi chiedo per quale ragione Irene continui a lavorare con me, cosa che peraltro considero un dono da meritare, e mi sforzo di non trovare una risposta per paura di capirlo. Mi dico solo che l‘ambiente famigliare e la flessibilità costituiranno per lei un vantaggio tale da superare gli altri limiti che una struttura minuscola e sempre vacillante inevitabilmente trascina.
Irene non è la sola con la quale condivido ufficio e risultati. Con noi lavorano anche Simona e Marina. La prima è una giovane fresca di studi (meno di sei mesi), con poche ambizioni, forse meno talenti, e molta attitudine all’esecuzione, specie quella che richieda più obbedienza che partecipazione, e soprattutto nessuna creatività. Marina mi aiuta nell’attività commerciale.
Quella mattina dunque mi rivolsi ad Irene per chiederle aiuto nella preparazione della presentazione per il Parioletti. Presentazione non è la parola giusta. Detesto l’occupazione del tempo del cliente con il dispiegamento di quelle che il venditore pensa siano le sue forze mentre in realtà non si tratta se non di specchietti e biglie di vetro che nessuno prende più per ori e gemme preziose. Invece che mettere tutta la propria mercanzia sul tavolo, cercando di imbonire l’imprenditore con effetti speciali, tipici del wannamarketing, preferisco una sobria introduzione che punti a conquistarmi il diritto di procedere nell’indagine, una sorta di abbozzo di fiducia, un credito ecco, che mi permette di porre quelle domande sagaci e pungenti delle quali c’è bisogno perché entrambi, cliente e consulente, capiscano veramente quale sia il problema e si accordino su come risolverlo, sperando che il chi sia io, ovviamente.

lunedì 19 settembre 2011

L'aiuto di Irene - Nona puntata

Prossimo post mercoledì 21 settembre



Parioletti dunque, imprenditore, titolare della HAL servizi, azienda fondata dal di lui padre sul finire degli anni Settanta, attiva nel settore della organizzazione di eventi, con due filiali internazionali, a Bruxelles e a Parigi. Clienti prestigiosi, specie nel mondo della moda e del lusso, circa 300 persone in Italia e un numero non precisato nelle filiali estere. Luigi Parioletti compare spesso in interviste su riviste di settore e quotidiani economici, a magnificare la qualità della vita offerta dalla propria azienda, capace di valorizzare le persone, le quali sono il vero bene dell’azienda, la quale grazie a questa comunione di affetti e intenti, è in grado di garantire ai propri clienti il meglio in questo servizio. Due video su Youtube nei quali LP viene intervistato da un giornalista che oserei definire amico, e sorride sempre un po’ di sbieco alla videocamera, un sorriso tirato, asciutto, rassicurante sì, ma più vicino a quello di Jack Nicholson che non a quello di Harrison Ford.
Perché mi chiama? Che cosa vorrà? Anticipare: è necessario capire prima per essere pronti. Studiamo. Ecco, forse: annuncia che intende espandere la propria presenza in Europa, magari puntare all’Asia. E quotarsi in Borsa. E per farlo c’è bisogno di una squadra attenta e allineata. Potrebbe essere questo il punto. Proseguo nell’analisi del cliente e dei suoi clienti. E dei suoi concorrenti. Bisogna avere tutto sul tavolo. Arriva Irene. Saluto, beviamo un caffè, scambiamo due parole e poi insieme a lavorare su HAL servizi, chissà perché a me viene sempre in mente il vincisporco di una pubblicità dei tempi di Carosello.
Irene è una ammirevole assistente. Anche una piacevole ragazza. Ragazza si fa per dire, almeno dal punto di vista anagrafico. Anche se sono sempre tutte ragazze.
Ciò che apprezzo di lei è la sua capacità di non fermarsi all’apparenza delle mie richieste. Non ha paura di mettermi in discussione, qualità che apprezzo molto dato che mi aiuta a superare quella barriera di me che non sempre riesco a penetrare, quella membrana che separa le mie idee dalla mia presunzione, e che può annebbiare la limpidezza dello sguardo e condurre su praterie dove l’ego scorazza così a lungo da perdersi e piombare in quella disperazione acida e sudata che prende alla gola.

venerdì 16 settembre 2011

Il tragitto casa lavoro - Ottava puntata

Prossimo post lunedì 19 settembre





Capitolo terzo

La distanza tra il mio ufficio e casa mia è sempre stata molto più significativa del tempo che impiegavo a coprirla. Perché quel nido nel traffico ha rappresentato per anni un rifugio solitario dalle tempeste della quotidianità. Almeno finché le pareti della tana non sono state sbriciolate dal cellulare, che ha reso impossibile isolarsi completamente. No, non è vero. Basta un gesto brusco che faccia scattare l’interruttore. Il punto è che richiede molta più volontà che energia. E non sempre la si trova. Ho percorso milioni di volte la città per andare nelle varie sedi dove ho abitato. Professionalmente si intende. E quegli spazi, dentro una macchina compressa nel traffico, assediato dall’impazienza e dal livore –qualcuno renderà conto a Dio per il tasso dell’odio scatenato dall’uso esagerato delle automobili: altro che inquinamento da particelle sottili- ammorbidito dalla pipa, sono spesso stati tutti miei, per ritrovare con l’aiuto di una musica sottile e lieve un equilibrio pacato e acuto che potevo essere sul punto di smarrire.
Ora che questa distanza non supera il metro, da quando l’ufficio occupa l’appartamento accanto al mio sul pianerottolo, comunque ha assunto un significato importate: è la misura della libertà e il dinamometro che valuta la capacità di rispettare la mia famiglia. 
Percorsi i due passi che separano le due porte, quella mattina di ottobre, ricordo: il sole scioglieva caldo i primi aliti freschi dell’autunno, prima che Irene fosse arrivata, mi concentrai sull’incontro che avrei avuto la mattina seguente con Parioletti.
Mi ha sempre stupito questa capacità delle stagioni di annunciarsi sobrie e timorose, come a confonderti e a lasciarti l’inganno che l’una non si scioglierà mai nell’altra, che non osa impadronirsi di cose e cielo. E così quella mattina mi parlava di un tepore lieve e lieto, e mi prospettava futuri non dico radiosi, ma per lo meno aurorali, sebbene la loro luminosità avrebbe potuto facilmente confondersi con tonalità crepuscolari dalle quali speravo di tenermi lontano ancora per un bel po’.

mercoledì 14 settembre 2011

Una settimana fortunata - Settima puntata

Prossimo post venerdì 16 settembre



La strada sfilava monotona, scendeva la sera, senza fretta e senza rancore. Quell’ora che, se la guardi senza proteggerti, ti si infila nel cuore e lo sbreccia. E io, che ascoltavo per errore un jazz pacato e ondoso, come un tramonto in mezzo al mare, non feci in tempo ad alzare le barriere. Così la nostalgia si insinuò rapida e iniziò a spingere. E d’un tratto esplose. Lasciandomi a raccattare i ritagli della mia vita.
Non è mai il momento di fare bilanci, semmai esami, poiché i primi incatenano al passato, i secondi invece sono la porta del futuro. Il confine che li separa è assai trasparente e non è facile capire da quale lato ti trovi. Io guardai e rimasi intrappolato. E ciò che vidi mi spaventò perché assomigliava molto ad un fallimento generale. Ne rimasi confuso. Feci fatica a non cadere nel gorgo, oscillai sull’orlo del precipizio, trattenendomi al presente perché in esso vedevo riflesso il futuro. E con un guizzo riuscii a tirarmi fuori, non senza essere rimasto ferito. E mi ritrovai lì, come un naufrago che si adagia sulla spiaggia che finalmente ha raggiunto, incapace di capire se può rallegrasi per lo scampato pericolo, per essersi strappato ai flutti, o se deve iniziare a preoccuparsi per ciò che troverà nell’ignota terra che si spalanca dinnanzi a lui.
Questa terra per me era una speranza di lavoro. Non potevo perderla. Dovevo combattere. 
Quando finalmente aprii la porta di casa, e fui accolto dall’affettuosa indifferenza della mia famiglia, avevo chiaramente in testa il piano che avrei seguito per conquistare Parioletti.
Terminai di studiare con attenzione il mio prossimo potenziale cliente verso l’ora di pranzo. Nel frattempo avevo consultato compulsivamente la posta elettronica almeno dieci volte. L’ultima trovai una sorpresa. Un cliente che avevo contattato tempo prima mi proponeva una data per incontrarlo. Lunedì mattina. Una settimana decisamente fortunata.  

domenica 11 settembre 2011

La patologia del commendator Zampetti


Prossimo post mercoledì 14 settembre




Ti guardano, picchiano sul tavolo sgombro con il loro indice che vuol raccontare il loro trionfo, e parlano come macchiette, comiche sì ma vincenti, come il tizio che ho in mente in questo istante e che incute tanto timore quanta derisione nei suoi collaboratori, perché quando parla sembra la caricatura di se stesso.
E così, questa icona dell’imprenditore, finisce nelle parodie di Zelig, nei romanzi che parlano di lavoro, nell’immaginario di intere generazioni. Come il commendator Zampetti de I ragazzi della terza C. Anni d’oro del serial italiano: la commedia casereccia spalmata in una quarantina di puntate all’anno. Mica come Happy days. Di cavalier Zampetti ne ho incontrati io, mi verrebbe da dire: io ne ho viste cose che voi umani… Eppure questo è il mio mestiere. E deve partire dalla conquista della fiducia. Senza quella non si fa un passo avanti. Perché lui deve annusarla, deve percepirla, deve leggerla in ogni mia mossa: deve venirgli la voglia di comperare il mio tempo –questo è quello che vendo: il tempo mio e dei miei colleghi- per metterlo al servizio del suo scopo: fare più soldi qui e in futuro. E questa scintilla o scocca subito o è buio per sempre: un buio muto, che magari si strina per due o tre incontri, ma che si è già creato, come un enorme buco nero.
Di tal genere, se non tali appunto, erano i miei pensieri mentre, dato l’addio ai monti e impegnata la pianura, già cercavo di capire come costruire questa fiducia, basandomi sul collegamento con il Magnaga. Che invece era un uomo retto e semplice. Un amico di vecchia data che avevo conosciuto in una grande multinazionale, quando muovevo i primi passi da consulente, e mi aveva colpito per quel suo tratto accorato, attento anche alla scelta delle parole, che soppesava in lunghi silenzi. Era nata una amicizia forte, di quelle che non impongono frequentazioni assidue, che era proseguita anche nelle successive migrazioni del Magnaga in fine approdato al ruolo di amministratore delegato della filiale di una azienda americana di servizi, dal quale mi aveva realmente aiutato, ottenendone in cambio una infinita riconoscenza e progetti sensati e di successo.  Decisi di telefonargli per poter raccogliere quelle informazioni che mi sarebbero state utili. Le ottenni proprio mentre superavo il Po’ rientrando in Lombardia.

giovedì 8 settembre 2011

La prevalenza del presuntuoso - quinta puntata

Prossima puntata lunedì 12 settembre





Chissà se hanno fatto in tempo a raccogliere un po’ di informazioni su di lui e la sua azienda? Chissà che cosa gli avrà detto il Magnaga (chissà perché continuo a mettere gli articoli ai nomi?) Devo prepararmi per bene. E preparare una grande apertura, perché lì c’è il segreto del successo. Specie per un consulente direzionale che cerca di vendere le sue competenze a un cliente che, per comperarle, deve innanzitutto credere di avere bisogno di qualcuno che gli spieghi dove ha sbagliato. Se ci pensi, è una follia. Il contrario di quello che insegna il mondo. Perché lui deve avere sufficiente umiltà per capire che c’è qualcuno che può insegnargli qualche cosa. E io avere sufficiente delicatezza per non fargli credere che ha sbagliato tutto. Cosa che spesso accade. No. Non sto dicendo che la classe imprenditoriale italiana sbaglia. Non in quel senso per lo meno. Ovvio che errori ne commetta. Sarei stupito del contrario. È che spesso non li riconosce: il padrone è convinto comunque di avere ragione.
E non dovrei più stupirmi dell’arroganza immersa nella presunzione, che ogni volta trovo: invece ne resto addolorato, come ferito. Perché confrontando quei modi rozzi e bruschi,  un attentato alla ragione, con il mio modo di affrontare la mia professione di consulente , ci vedo la ragione della mia sconfitta, del mio perenne inseguire un sogno che si sposta sempre più in là, della mia incapacità di affermare nei numeri quella supposta autorevolezza che cola dalle parole di chi mi conosce e non mi compera. Al punto che mi chiedo se non ci sia un nesso perverso e incidibile tra orgoglio e successo, come se ciò che contasse non fossero i risultati, ma l’arroganza con la quale si millantano. Ne resto sempre turbato perché nel mio intimo sono convinto della forza dell’umiltà, che mi sembra di vedere invece fallire nella durezza della realtà, cruda, abbacinante, imbiancata come un muro secco sotto il sole d’estate, quel famoso muro che reca in cima cocci aguzzi di bottiglia, lungo il quale la mia vita sembra prosciugarsi. Mi sgomentano, pur facendomi compassione, questi condottieri che massacrano con eguale banalità persone ed idee, che pretendono senza nulla dare in cambio, che richiedono strategie che loro non sono in grado nemmeno di sfiorare con il pensiero, che non riescono a vedere più in là del loro portafoglio, pieno oggi e domani si vedrà, perché questa grettezza paga, restituisce, appaga.  E le loro frasi, ripiene parimenti di vocaboli stranieri dei quali si è perso il senso e l’origine, come di termini sboccati e volgari, scheggiati i primi unti i secondi, finiscono per sedimentarsi nel mio intimo con la violenza di una frana che precipita nell’invaso e lo fa tracimare sommergendo ogni cosa, dilavando tutto, confondendo. Eppure li vedo, seduti al vertice, brandire la loro arroganza come scettro, marchio del possesso e del successo. Non vorrei confondermi con queste figurine da album, e mi trovo ad invidiarle, provando vergogna per questa invidia, provando terrore per il futuro che si arrotola come nuvole di tempesta, un futuro che è sempre più breve, ad ogni istante che passa, e che ormai non mi lascia più spazi, come il mazzo  di un solitario, che non vuol tornare, che si assottiglia di più ad ogni nuova carta che sei costretto a scartare perché non trova collocazione nel disegno steso sul tavolo. Vorrei piangere qualche volta, nell’inevitabile confronto, e mi trovo invece a sorridere, perché si deve pur campare, perché tengo famiglia, moglie e quattro figli, che poi ti dicono dovevi pensarci prima, ma prima quando? Quando la vita sembra spalancarsi rosa come una aurora? E ti tradisce, vigliacca lei, non perché non te lo aspetti, ma penseresti sempre che viene dopo il momento difficile, dopo quando sei pronto per affrontarlo, e invece ti piomba addosso troppo presto, non senza cattiveria, anche se mitigata dalla durezza dell’insegnamento, perché è proprio nelle difficoltà che impari e in fretta. Sarà la stanchezza, sarà che la somma è prossima all’ingorgo, ma questa durezza faccio fatica a smaltirla. 

martedì 6 settembre 2011

La dolcezza della moglie - quarta puntata


Prossimo post Venerdì 9 settembre


Capitolo secondo



Se c’è una cosa che mi affascina delle telefonate di mia moglie è la loro imprevedibilità: potrebbe liquidare tutto in sei parole oppure sciogliere in tanti chilometri la nostra voglia di stare in qualche modo vicini. O ancora di litigare. Già perché il nostro amore è anche abbastanza rissoso. Senza conseguenze. Abbiamo superato la soglia dei trent’anni di vita in comune, non dico che questo garantisca  un finale in scioltezza, ma l’abitudine rassicura. Perché l’amore è fatto anche di banalità, che a vederle bene sono tutt’altro che superficiali, anzi piuttosto radicate. E la consuetudine le lega in un filo che sembra così sottile da non poter essere spezzato: vuoi per noia, vuoi per non dover inventarsi tutto da capo, vuoi perché questo è un modo elegante e umile per dire che non posso fare a meno di te. Come assuefatto. Così mi sento. E nonostante ciò litighiamo. Questa volta siamo nella modalità morbidosa. Sono fuori da due giorni e, mi fa piacere constatarlo anche questa volta, è la nostalgia a prevalere. Ci raccontiamo. Puntualizza le sfide della giornata. Mi chiede quando arrivo. Mi dice dei figli. Le parlo di Parioletti. Sorride. La vedo. “Ce n’è bisogno” aggiunge. “Lo so” puntualizzo. Sono già alla fine dell’Appennino. Vedo in lontananza Cantagallo. “Un paio d’ore e sono a casa”. “Che cosa vuoi per cena?”. Non me lo chiede realmente. Non è importante. O invece lo è: ma non per raccogliere desideri gastronomici. Per mostrare la cura. E’ in queste piccole cose che mi conferma che mi ama. Nel modo con il quale stira una camicia, la domenica mentre io guardo le partite in televisione e lei alle mie spalle, per farmi compagnia, io che forse in quel momento non la vorrei proprio, stira in silenzio, o quasi, parlando sempre nei momenti meno propizi -ma c’è forse un momento propizio per un uomo che guarda la televisione?- vedo la pazienza che ha con me. E mentre io scivolo veloce verso il nodo che tiene attaccata l’Italia, trattenendo le due coste grazie al nastro autostradale che proprio qui, appena sopra Bologna si avviluppa, o si dipana a seconda di come lo guardi, mentre rallento per evitare la fotografia sgradita del dispositivo di controllo velocità, nascosto proprio sotto il ponte, lei mi saluta.
In medias res. Torniamo al Parioletti

lunedì 5 settembre 2011

Irrompe mia moglie - terza puntata

Prossimo post Mercoledì 7 settembre


Dovevo saperne di più di questo Pariolini e della sua azienda. A cominciare dal fatto che si chiamava Parioletti e non Pariolini. Chiamai in ufficio e chiesi a Irene di svolgere una indagine per raccogliere quanto più dati trovasse.  Amo essere preparato quando incontro un potenziale cliente, non è solo una faccenda di professionalità, ma anche di onore, di lealtà. Mi sento veramente coinvolto nelle loro vicende, nelle loro aspettative. Capisco che sia ingenuo, e forse questa è una delle ragioni del mio… stavo per dire insuccesso, ma non è vero. Non è insuccesso il termine corretto. Piuttosto sottovalutazione. Mi presento con un profilo sommesso. Che non vuol dire sottomesso. Ma piuttosto... umile. Low profile dicono. Perché detesto l’immagine del consulente arrogante. Già sono milanese. Figuriamoci. E perché dovrei affrontarti con cipiglio furioso, e sguardo da “ma ha capito chi sono io?”. Eppure questo sembra pagare. Non si spiegherebbe perché mi ascoltano, annuiscono, pensano di fare altro, interpellano altri, che consigliano loro di fare esattamente quello che avevo suggerito io,  lo fanno, me lo dicono, mi dicono “è proprio quello che ci aveva detto lei”, e sorridono. E io non riesco neppure a dir loro in faccia: “ma vai a c….!”.
Era quindi importante che con questo Parioletti mi ponessi fin da subito con il giusto standing: ecco, l’ho fatto. Dovevo dire con la giusta immagine. Ma non è la stessa cosa. Io poi questa cosa qui di proiettare sogni positivi per generare l’atteggiamento corretto non l’ho mai bevuta. O per lo meno, è un po’ come gli oroscopi o certe altre superstizioni: non ci credo. Certo che bisogna avere speranza, e che questa genera pazienza innanzitutto e poi umiltà. Ma guardare fisso davanti a te ripetendo come un idiota “ce la farò, ce la farò”…. non è nelle mie corde.
Eppure, quel giorno, scivolando giù rapidamente verso Bologna, fui come rapito da una sensazione, come un déjà vu futuro. Guardavo il panorama, che è proprio bello anche quando la luce non gli rende merito, e mi sentii rapito da una dolcezza inspiegabile, che inondava il mio animo spalancando porte e botole che avevo ormai sepolto sotto valanghe di calcinacci, difese per impedire che tornassero alla memoria ricordi densi e profondi. Vedevo le nuvole stirate sopra san Petronio, in un cielo teso come un lenzuolo pulito sul letto, e i contorni degli alberi sulle colline, in fila come una cordata alla conquista di una vetta incorrotta.
E in quel momento, come per un segnale misterioso, una forza estranea, vennero fuori tutti insieme e tutti pretendevano udienza. Ne fui turbato, ma in modo sereno e lieve.
Dico questo perché quel momento fu determinante per il mio futuro, per segnare il corso delle vicende che seguirono, in quanto mi fu impossibile disgiungere da Parioletti e la sua azienda, quel sentimento vigoroso e dolce che mi aveva solcato l’animo tessendo un ponte tra passato e futuro. So che è un mio limite quello di non riuscire ad anestetizzare l’anima, eppure è anche una ricchezza.
Fu il trillo del telefono, ancora una volta irruzione delle realtà nel mio mondo di pensiero, a interrompere quel flusso di coscienza. Era mia moglie. 









sabato 3 settembre 2011

La vendita referenziata funziona - seconda puntata

Prossimo post Lunedì 5 settembre


E poi voleva dire che quell’idea di chiedere aiuto ai clienti per cercare nuove opportunità stava funzionando. Ricordavo quando avevo preso la risoluzione di tentare anche questa soluzione. Ero solo sdraiato sul setto di una sobria camera d’hotel a Cosenza. La finestra mezza socchiusa, compromesso tra il desiderio di cacciare fuori il fumo della mia pipa e il tentativo di tenere fuori il caldo avvolgente del tardo pomeriggio. Leggevo un saggio di una autrice americana che si definisce la regina delle referenze. Ondeggiavo indeciso tra l’applicazione dei suoi consigli e il timore che si trattasse della solita americanata, quando fui colpito da una parola, una sola banale parola: fiducia. Chissà quante volte l’avevo letta prima di allora. Eppure lì, nel clima unto della stanza, la pipa che sbuffava lenta e morbida, la luce che entrava di taglio, tra le strisce della tapparella semi-abbassata, e segava in due le mie gambe stese sul letto, lì in quel momento mi sembrò quasi una invocazione, una chiamata, una richiesta. E mi ero deciso. Vincendo così la mia insospettabile timidezza, avevo deciso di mettere in pratica la vendita referenziata. Mi ero preparato il discorso seguendo le istruzioni del saggio. E tra i primi contatti mi ero rivolto proprio al Magnaga. Quindi l’aveva fatto, mi aveva aiutato.
Pensavo a queste cose e cercavo di mettere ordine sia al passato, per capire in quale modo avrei potuto imparare dall’esperienza così da poterne trarre vantaggio, sia al futuro, per evitare ogni rischio di errore. E mi irritavo con me stesso per l’impossibilità di trovare un linguaggio che non mi facesse piombare nella banalità di quelle parole sdrucite e scucite, ereditate da culture straniere, che avevano imperiosamente preso possesso della nostra lingua, ossessionando sia chi le usava con tono volgare, per ammantarsi di un volano di esteromania, sia chi le pronunciava con vergogna e pudore.
A volte la mia mente restava imprigionata in questi circoli viziosi. Non ne capivo il motivo. Li sentivo come amici pericolosi, capaci di stimolare il pensiero, ma anche di condurlo verso deserti dai quale sarebbe stato impossibile fuggire. C’era sempre stata qualche opportuna interruzione che mi aveva salvato sulla soglia della trappola. Quella volta fu lo sfarettare dei una Mercedes lanciata ben oltre il consentito, giù per i declivi secchi e arrotondati, che voleva a tutti i costi superarmi. Lo feci passare appena possibile.
Che cosa dovessi fare quel venerdì seguente era presto detto: nulla. Il momento non era dei migliori e se ero riuscito a rimanere a pelo d’acqua fino  a luglio, iniziavo a sentirmi trascinare verso il fondo dall’assenza, quasi completa, di nuovi progetti. Il che ovviamente era fonte per me sia di immediata preoccupazione sia di domanda pungente sul futuro. C’era un futuro? In quella professione? Poiché cercavo risposte nei messaggi che la vita mi mandava, più che in me, atteggiamento che peraltro coltivo ancora, ritenni che la chiamata del Pariolini  fosse un segno che sì, c’era ancora spazio per continuare a svolgere quello che alcuni taglienti amici definivano “un hobby poco costoso” e che per la mia famiglia avrebbe dovuto essere la fonte di futuro. 









giovedì 1 settembre 2011

E l'avventura comincia - prima puntata

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Scorre implacabile il tempo
la prima business novel a puntate 




Capitolo primo
Giuro che l’avrei fatto. Se me ne avessero dato il tempo. L’avrei fatto, anche se non è nel mio stile, nel mio temperamento. Perché andava fatto. Una questione di giustizia. È successo tutto così in fretta. E così sono seduto qui dove sono seduto. Con questa luce accecante che mi picchia negli occhi. Mi guardano. Duri. Spietati. Chini in avanti nell’attesa. E si aspettano che parli. Subito. In fretta. Che spieghi tutto. Che dica. Che chiarisca. Che confessi.  Che dia senso.
Ma andiamo per ordine.
Tutto iniziò con una telefonata. Ricordo esattamente quel momento. Inizio ottobre. La fine del pomeriggio. Un sole diluito spingeva luce scialba giù dal cielo infossando le montagne ed affogando il panorama in un chiarore imberbe e vanitoso. Ero al chilometro 254 dell’autostrada A1. Risalivo da Firenze verso Milano. Sta superando un autoarticolato. Proprio mentre ultimavo la curva, chiudendo anche il sorpasso appena prima di immettermi in una galleria, il telefono suonò. Numero sconosciuto.
“Dottor Codega? Sono Parioletti, amministratore delegato di HAL servizi. Mi ha parlato di lei un comune amico, Magnaga. Vorrei incontrarla, abbiamo bisogno del suo aiuto. Vorrei capire che cosa non va in azienda. Quando può venire a trovarmi?”
Disse tutto così, senza nemmeno respirare. Secco. E io non potevo nemmeno fermarmi per prendere nota o controllare la mia agenda.  La prima piazzola era a dodici chilometri, appena dopo il valico. Non ce l’avrei mai fatta.  Come si poteva dire di no. Con questa crisi. Cercai di ricordare.
“Sono in auto, vado a memoria, che ne dice di venerdì mattina, dopodomani? Per lei potrebbe essere un buon momento?”
“Mi faccia vedere. Per le 9.30? Siamo a Cernusco sul Naviglio. La aspetto”.
“Dove trovo il vostro indirizzo esatto dr. Parioletti?”.
“Le mando un sms con l’indirizzo e le faccio spedire una mail dalla mia assistente.  Ci vediamo venerdì. Buonasera”.
Non una parola di più.
Che cosa pensare? Mentre giungevo finalmente alla galleria che spezza le reni all’Appennino, congiungendo quello che la montagna vorrebbe dividere, mentre iniziavo la discesa verso Bologna, la prima sensazione fu di gioia. Pura. Asciutta. Verde. Lo considerai un doppio dono. Primo: perché avevo disperatamente bisogno di lavorare. Secondo: perché quell’emozione così infantile e morbida trascinava con sé una certezza. Mi sentivo sicuro. Mi venne in mente quella struggente canzone di Tenco “Vedrai vedrai, non son finito sai. Non si dirti come o quando, ma un bel giorno cambierà”.