lunedì 12 marzo 2012

Che cosa ho imparato?



“In che senso?” mi chiede quasi sdegnato. Cerco le parole giuste, ma prima ancora cerco lo sguardo con il quale rassicurarlo, confermare che sono dalla sua parte, che anzi voglio aiutarlo a guardare con nuova speranza il futuro.
“Intendo dire: hai sofferto, si vede, e lo capisco e se potessi… ma non posso. Hai ragione, questi sono incompetenti e volgari e anche in malafede. Lo capisco. Dobbiamo però spremere da ogni cosa il buono, da ogni cosa ciò che serve a noi. Allora, che cosa ti porti a casa di buono da questa vicenda, che cosa può esserti utile per non ripetere più questa sofferenza?”
Rialza la testa e sospira, si massaggia il mento. Sembra pensieroso, ma sereno. Risponde.
“Mai fidarsi”. Non sembra astioso, però nei suoi occhi pare di scorgere un’ombra bianca, come neve che copre.
“In che senso?” chiedo, più per aiutarlo a superare questo rancore che per chiedergli di esplicitare. O forse perché è una risposta che non mi piace.
“Vedi, ho creduto a lungo nell’onore e per me una stretta di mano, e la parola, valevano più di mille contratti scritti. Specie con persone che mi erano state raccomandate da amici sinceri, o che credevo tali, e con le quali condividevo valori. Ora non più. Ora sono stato così segato a fondo da non riuscire più a credere. Prendi questi farabutti: moine e sorrisoni, locali tempestati di santini come ad ostentare una virtù che manca nella sostanza. E io invece mi sono fatto irretire convinto che quegli specchietti per allodole fossero solo il calore che traboccava. Ma quale!”
Gli sorrido, riesco a farlo tacere. Scuote la testa e la china.
“Capisco che cosa  vuoi dire. Ci sono molti più mentitori di professione che non persone affidabili. Non è facile trovare l’equilibrio tra il rispetto e la tutela, e noi siamo due che tendono a fidarsi per primi. Credo sempre che questa sia la strada migliore. Io vorrei però tornare all’aspetto professionale per aiutarti a fare punto e capo, a mettere a profitto, E così vi guadagno anche io, imparo qualche cosa di nuovo. Prendiamo l’investimento ad esempio: come hai potuto pensare di procedere su un piano così se avevano da mettere sul piatto una cifra così modesta?”.

giovedì 8 marzo 2012

E arriva la vergogna



 “Non è per lo smacco professionale”, mi sussurra adesso, con gli occhi arrossati, “sì, anche quello, ma io ho la certezza, corroborata dalla fiducia e dal sostegno di tutti coloro che ho incontrato in questo progetto, gente del settore, mica come questi incompetenti”. Scuote la testa.
“E’ per il rancore che provo dentro e che non riesco a vomitare fuori, per liberarmene del tutto. Questo mi fa male. Mi brucia dentro e consuma”.
Lo capisco, lo si vede dai suoi occhi nei quali si mescola sia il fumo sia il bruciore, così che sono lucidi non di commozione né di dolore, ma di tutto, insieme a rabbia e vergogna.
“Sì, vergogna”, mi dice come se avesse capito i miei pensieri, “perché non lo vorrei questo rancore, lo vorrei gettare a terra e calpestare, fosse anche solo per orgoglio, per quel senso di vanitosa superiorità che coltivo e che così spesso mi deride. Ma non ci riesco, e quando il pensiero incappa in schegge impazzite –una targa, un mozzicone di nome, una scarpa, un ricordo- e si incaglia in un pensiero che scivola all’indietro, mi sale alla bocca come un rigurgito acido e con esso quel pianto violento e ribelle. E soffro”.
Posa un attimo lo sguardo, come per trovare non so se riposo, slancio o nuove parole, e riprende con vigore, e più lucidità.
“Ma che cosa credevano, che si arrivasse a Times Square, si aprisse la bancarella e tutta la gente a correre per acquistare? O che bastasse fare il loro nome, uno confuso tra i tanti, quasi una brutta copia di quello più famoso, perché piovessero ordini? Acquirenti entusiasti con rotoli di banconote pronti a dare senza garanzie? Ma come fa uno a chiamarsi imprenditore se non fa questi conti dopo che aveva millantato di voler aprire negozi monomarca in tutto il mondo? Che non sa neanche che cosa è un business plan o una analisi di mercato?”.
Scuote la testa.
“Scemo io! Che ho creduto più alla mia voglia che alla loro affidabilità”.
“Ecco, e che cosa hai imparato da questo?”.

lunedì 5 marzo 2012

Il peso dell'amicizia




Capitolo nono

Pranzo con un amico per festeggiare il risultato ottenuto con in Parioletti. Con Ferdinando abbiamo condiviso tanti sogni e pochi risultati. Anche lui è consulente, e per certi versi concorrente, ma solo in modo marginale. E soprattutto c’è una amicizia profonda e datata che tiene lontano ogni rischio di conflitto.
Oggi lo vedo particolarmente depresso. E’ per via di un progetto nel quale aveva gettato cuore e passione e che gli è morto tra le mani per l’insipienza e la pavidità dei committenti.
“Ma ti rendi conto?” esclama con un dolore che gli cola giù dalle palpebre per quasi finire nel piatto che con pena finisce per alimentarlo “alla fine dopo tutti quei discorsi ho scoperto che non volevano investire più di 200 mila euro nel progetto. A fronte di un fatturato previsto a regime di 17 milioni di euro. Con un profitto di circa il 30% diciamo 5 milioni”.
Parla veloce come spinto da una rabbia che lo consuma.
“Vuol dire che contavano su un ritorno sull’investimento pari al 2500% in un anno. Neanche la mafia da dei rendimenti così!” mi urla confuso. Per arrivare ad affermazioni così forti deve davvero essere molto turbato.
“E’ che tutti pensano di fare meglio di te il tuo lavoro. Hanno una ignoranza che è pari solo alla loro presunzione. Credono che vendere, promuovere sia banale. E che ci vorrà mai…. Ci vuole intelligenza, saggezza, strategia. Imbecilli e cafoni. Ecco”.
Gli sorrido, cerco di calmarlo, annuisco con partecipazione. Conosco già la vicenda. Me l’ha raccontata più volte.  Si sono presentati con un progetto grandioso: profitti infiniti, il mondo come confine. Ferdinando se li è presi sulle spalle, li ha guidati e dopo quattro mesi di lavoro, di duro lavoro per affermare un marchio che non conoscevano nemmeno i vicini di casa del sito produttivo, i presunti imprenditori si sono resi conto che l’investimento cresceva e i ricavi erano ancora lontani si sono spaventati e da incompetenti hanno mandato tutto all’aria.
Prima sciupando per cattiva coscienza le relazioni importanti, poi cambiando la strategia senza senso. E adesso a Ferdinando, che credeva in quelle scarpe come nei suoi figli, è rimasta una eredità una causa perché, oltre tutto, questi infami non l’hanno neanche pagato.
La lezione è stata dura, anche per me, perché questa minaccia agita sempre il nostro futuro, che il saldo non è mai certo.
Provo con lui a riassumere la situazione per calmarlo e soprattutto per aiutarlo ad uscire da questo trauma, che lo ha segnato profondamente.

giovedì 1 marzo 2012

Dentro o fuori



Potrei scegliere di andare avanti nel braccio di ferro. Scelgo invece di calare l’asso della controfferta.
“Mi rendo conto del suo desiderio di lavorare a lungo insieme e gliene sono grato. La considero una dimostrazione di fiducia. Proprio per questo, e perché non abbiamo mai lavorato insieme, credo che sia possibile trovare una strada che soddisfi entrambi. Per lei è importante ridurre il budget di questo primo investimento e potermi conoscere meglio. Per me è importante consolidare il rapporto, e poter contare sulla soddisfazione dei clienti per farmi conoscere. Questo è quello che le propongo:
1.     una riduzione di circa il 25% in questa forma:
a.     intorno al 15% applicato a questo contratto
b.     10% come buono riduzione da applicare alla seconda fase di questo progetto
2.     in questo modo la cifra totale che investirà per questo progetto è di undicimila cinquecento euro: dei tredicimila che le fatturerò millecinquecento euro verranno recuperati nella seconda fase del progetto
In cambio le chiedo due cose:
1.     la fatturazione avverrà in due tranche: ottomila euro all’ordine e cinquemila alla consegna del piano di soluzioni, quando le fatturerò anche le spese
2.     se sarà soddisfatto del lavoro, come non dubito che sia, le chiedo di presentarmi ad un altro imprenditore che lei conosce così come Magnaga mi ha presentato a lei.
Che cosa ne dice? Lo trova equo?”
Parioletti si appoggia allo schienale della poltrona, incrocia le dita e arriccia le labbra. Guarda prima la sua assistente, a lungo, e questa la dice lunga sulle relazioni interne, poi gira lo sguardo verso Franchi e si toglie lo sfizio di sconfiggere qualcuno: “Franchi, lei e Caniato fate in modo che questo regalo che vi faccio non vada sprecato. Va bene. Sarà felice dr. Foresi, mi aspetto che faccia un buon lavoro. Quando comincia?”. 

lunedì 27 febbraio 2012

Sì, ma



“Sì, ma.. quindicimila sono quindicimila!”
“Che cosa la preoccupa dr. Parioletti?”
“Beh che lei non riesca a farcela, non dico per demerito suo”.
“Quindi mi sta dicendo che non intende assumersi il rischio imprenditoriale da solo?”.
“Certo, io sono qui a rischiare e lei, lei comunque vada porta a casa… non mi pare equo”.
Siamo passati al secondo livello, quello dell’equità: dopo l’aggressione, la tattica negoziale passa ad usare lo stato della relazione come strumento persuasivo. Adesso mi sta dicendo che non sono corretto e buon amico se lascio rischiare solo lui.
“Capisco il suo punto di vista. E’ ragionevole mostrare un intelligente scetticismo, non basato sulla sfiducia, ma sull’imprevisto. Un altro modo per vedere la situazione può essere questo: se il raggiungimento insoddisfacente dei risultati non dipende dalla mia professionalità, che quindi è all’altezza delle sue aspettative, ma da imprevisti, o da condizioni variabili del mercato, non ritiene equo che il mio impegno venga comunque riconosciuto? Quando la sua struttura con la massima efficienza e competenza organizza un evento e questo per ragioni indipendenti dalla sua volontà, non risulta completamente in linea con le aspettative del cliente, forse è costretto a ridurre la cifra l’investimento richiesto al cliente? Sarei sopreso se fosse così”.
“No, ma che c’entra. Il nostro lavoro…” inizia. Poi si ferma, vede che lo guardo sorridendo. E tenta la terza carta negoziale.
“Senta. Io voglio lavorare con lei. Mi venga incontro. Posso garantirle che questo è il primo pezzo di un progetto molto più ampio. Dimostri di tenere al futuro e mi faccia una riduzione e vedrà che lavoreremo a lungo insieme”.
Terza fase: sei il mio eroe, fai il bravo e non ti lascerò più. 

giovedì 23 febbraio 2012

Quindicimila euro più le spese




“Quindicimila euro più le spese”.
“Lei è matto. Lei non ha capito”.
Sorrido e resto in silenzio. Una delle tattiche negoziali più comuni è quella di cercare di provocare. Con una aggressione verbale. Come questa. Quindi tacere. Lascialo andare avanti. Il silenzio è difficile da reggere. Infatti:
“Ecco, vede. Non ci siamo mai avvalsi di consulenti in precedenza. Non ne abbiamo mai avuto bisogno. E anche adesso onestamente. E quindi non ho certo una cifra a budget di questa entità. E’ un costo che non riesco a giustificare….”. Adesso è lui a tacere. Mi guarda fisso. Attende che io gli dia ragione.
Delle due l’una: o anch’io sono convinto che sto sparando alto, e allora lo si leggerà nella mia voce, oppure ho la certezza di fargli un piacere, e allora terrò duro. Spesso si cade proprio su questo: quando il cliente spara “è troppo caro!” il venditore dentro di sé si accascia e pensa: “mi ha beccato! Lo dicevo anch’io che avevamo esagerato. Se ne è accorto!”. Se pensi così sei andato, sei fuori.
Io ci credo. E ho fame. Ho la necessità di tenere a galla la barca. Non mollo per una tecnica negoziale così banale.
“Come le dicevo, neppure io saprei giustificare un costo così. Infatti quello che le sto proponendo non è una uscita di denaro. E’ un investimento. E’ la strada più diretta per affrontare i problemi che lei ha riconosciuto come prioritari e incrementare sistematicamente i margini. Capisco che lei non mi conosca e che possa prendere queste mie parole come una millanteria. Per questo lei si è fidato del dr. Magnaga che le ha proprio riferito il vantaggio economico che ha ottenuto dalla nostra collaborazione”. 
“Sì, ma…” abbozza. I suoi lo stanno seguendo attenti: si sono sporti in avanti.

domenica 19 febbraio 2012

Ma allora quanto costa?




 “Bene dr. Parioletti, allora quello che farei per risolvere il problema e aumentare i profitti è lavorare su due piani paralleli:

1.     Aumentiamo i prezzi lavorando sul posizionamento e la percezione della qualità di HAL tramite l’azione dei venditori
2.     Tagliamo le inefficienze che fanno spendere di più e perdere occasioni di riduzione di costi con i fornitori esterni.
 Che ne dice? Le sembra che questa sia la direzione da prendere?”.

Riflette: dal brillio degli occhi so che è d’accordo e che anzi è soddisfatto del lavoro fatto si qui. Aspetta perché crede che così può conquistare potere negoziale. Infatti, dopo aver ben riflettuto, cercato le parole, mi risponde:
“Certo. Non mi sembra peraltro che sia un colpo di genio. Che cosa potremmo fare di diverso?”.
“Sono d’accordo con lei, dottore. Una volta chiarita la situazione di partenza, capire la strada da prendere è stato facilissimo”. Giochiamo di fioretto: ha capito benissimo che cosa intendo dire. Prima che glielo facessi dire, che lavorassi con lui nell’incontro precedente, non sapeva neanche qualche fosse il loro problema. Sapeva solo che non guadagnava quanto desiderava. Facciamogli capire che gli sto già dando del valore aggiunto. E’ costretto ad annuire, con un leggero e deciso cenno del capo.

“Bene, dunque a questo punto ecco come intendo procedere:
1.     Dobbiamo capire quale sia il processo di vendita, non solo nella sua struttura, ma anche nelle relazioni e nella comunicazione che avviene tra venditori e clienti. Questo serve per capire come migliorare non soltanto nel modo di affrontare la vendita e di posizionare HAL, ma anche per capire come ridurre i costi delle fasi connesse;
2.     al contempo studieremo che cosa avviene internamente un volta che il cliente è stato acquisito e si passa alla fase operativa.
Tutto questo impegnerà circa una decina di giorni di lavoro tra incontri con le persone che voi mi indicherete per raccogliere i dati, affiancamenti con i venditori per capire come agiscono a fronte cliente, analisi dei dati ed elaborazione di una fotografia e piano di azione conseguente. In meno di un mese saprà esattamente come fare per aumentare i profitti. A quel punto sapremo anche quali strade prendere e quali priorità scegliere per tradurre in realtà il miglioramento dei margini.
Nel documento trova i dettagli di questi due filoni di indagine che spiegano e giustificano come agiremo.”

“E adesso che cosa costa me lo dice?”.

giovedì 16 febbraio 2012

La colpa e il benaltrismo




“Come ci siamo detti nel nostro incontro, l’obiettivo del progetto è di incrementare i margini. Abbiamo visto come sia opportuno capire con dettaglio quale sia il processo che porta dal contatto con il nuovo cliente alla gestione della rendicontazione post evento fino alla fidelizzazione. In particolare ci siamo detti che  una delle priorità da affrontare è quella del passaggio di consegne”.
Interrompe. “Va bene questo lo so. Venga al dunque”.
Questa è una debolezza: cerca di fregarmi fingendo che sa già tutto in realtà mostra solo una accesa curiosità per la soluzione. A questo punto devo procedere secondo lo schema per superare le resistenze:
1.     Concordare il problema: mettersi d’accordo su quella che è la difficoltà da affrontare
2.     Concordare la direzione della soluzione: ottenere l’assenso sulla direzione da privilegiare
3.     Concordare la soluzione: mostrare come la soluzione proposta è in grado di gestire anche gli effetti collaterali
Iniziati dunque a descrivere la situazione incasinata così come l’avevano descritta loro nell’incontro precedente.
“Certo dr. Parioletti: ciò che vogliamo superare è la riduzione dei margini. Dobbiamo lavorare su due aspetti per far crescere i profitti: da un lato migliorare la percezione che i clienti hanno di HAL così da non indirizzare le trattative solo sullo sconto, che è un problema che sentite assillante, così mi avete detto. E poi ridurre i costi, specie quelli derivanti dalle inefficienze interne dovute ad un livello di collaborazione non adeguato. Le sembra che questo identifichi la situazione di partenza e l’essenza del problema da superare?”.
“Uhm. Sì.”, grugnisce in risposta. Alzando appena le labbra che si torcono curvando gli estremi verso il basso in una simulazione perfetta della faccina scontenta. Se fossi Carl Lightman di Lie to me esclamerei che questa è una dichiarazione controfirmata di sconforto. Sa bene che questo è il problema. E lo imputa all’incapacità dei suoi uomini.

lunedì 13 febbraio 2012

Costa troppo


“Costa troppo” mi ha appunto risposto, quasi schiantandosi sulla sedia, come se l’avessi pugnalato di nascosto. Il suo viso era una maschera digitale sulla quale due espressioni si alternavano a rapidità impressionante: la delusione, come per essere stato tradito, e la stizza per sentirsi raggirato.
I due angeli custodi ovviamente tacevano: Franchi, il direttore operativo, tiene il viso abbassato, non so se prova più vergogna per la sceneggiata del suo capo, che deve ricordargliene altre simili con lui imputato, o se per cercare qualche colpo ad effetto che faccia aumentare la stima del Parioletti. Lei, la Lucchini, come venere imperturbabile, mi fissa con un’aria birichina che sembra rimproverare dolcemente “non me lo faccia arrabbiare dai, che poi una soluzione la troviamo”.
“Ha ragione” dico io soprendendo tutti. “Infatti come vedrà non è questa la cifra che le propongo di investire per valutare i vantaggi economici che questo progetto può produrre”. Sto rischiando molto, lo so: mi è venuto così, di dirgli una cifra a caso. Beh non proprio a caso.
“Mi sta prendendo in giro?” soffia il Parioletti.
“Dottore, e come potrei mai? Le ho indicato la cifra che il progetto potrebbe raggiungere globalmente, l’investimento globale dei primi sei mesi se e solo se l’intervento iniziale dimostrerà, come sono convinto, di dare frutti molto più abbondanti in termini di margini operativi. A quel punto non si tratterà più di quanto si investe, ma quanto questo investimento rende e in che tempi. Non le pare?”
La domanda mi è venuta bene: adesso lascio a lui la sentenza. Mi sono messo nelle sue mani. E ogni re, per quanto severo e giusto, non può non avere una vena di misericordia. Basta non appellarcisi in modo tronfio, sguaiato, plateale.
Infatti abbozza un sorriso, alla Bogart appunto, e finalmente dice, mentre le due figure ai suoi lati sembrano stirarsi e accendersi di speranza: “Mi faccia vedere che cosa ha preparato”.
Notato bene il “mi faccia” che è molto diverso da “ci faccia”?
Si comincia.

giovedì 9 febbraio 2012

Si inizia a negoziare



Capitolo ottavo

“Costa troppo”.
Era scontato. Che avrebbe comunque detto così. Fa parte del ruolo. E di una certa ignoranza molto diffusa. Non dico che tutti gli imprenditori italiani siano ignoranti: ci mancherebbe altro! Ci sono molti veri geni tra di loro: di quella genialità che sovrasta la logica perché scardina l’analisi, la razionalità per esaltare l’intuito. Come se fosse possibile aggrapparsi ad un raggio di sole per inseguirne la curva e vedere con occhi diversi tutto il creato fino ad inventare qualche cosa di nuovo.
Chapeau! Li invidio di quella invidia bianca, sana, depurata dalla rabbia.
C’è però che poi nel momento in cui scendono da quel raggio di sole, si calano in testa il cappello del duro, come se ci dovesse essere un Humphrey Bogart al comando di ogni azienda. E devono sempre far vedere chi comanda. Non solo: ma ritengono spesso che l’esercizio di questa facoltà si attui in modo specifico nella gestione del denaro. Ecco perché qualunque proposta costa sempre troppo.
Non mi ha lasciato quasi neanche sede il Parioletti, ha iniziato a chiedermi “quanto mi prende?”.
Ho risposto da manuale: “Guardi, l’investimento che le indicherò alla fine è ampiamente recuperato nell’arco dei primi due mesi, secondo il piano che le vorrei illustrare”.
“Sì, ma quanto mi costa!” ha insistito.
“Se permette vorrei riservarmi di svelare l’investimento richiesto dopo averle, brevemente si intende, raccontato come metterlo a frutto e quanto guadagno può produrre”.
“No. Mi dica prima quanto vuole”. Lo ha detto sporgendosi in avanti e tirando i lineamenti, come a voler assumere ancora di più il controllo della situazione. Ricordo che pensai “adesso o si accende una sigaretta sotto il cappello a falde larghe che estrae con colpo teatrale da sotto il tavolo, o mi prende a cazzotti”.
“50.000 euro”, ho allora sparato: a voce alta, senza abbassare lo sguardo. È lì la prima vittoria: se mostri di avere quasi vergogna per ciò che stai chiedendo sei finito. 

lunedì 6 febbraio 2012

I furti del Duemila


Prossimo post Giovedì 9 febbraio


Che cosa ci aveva portato infatti il Duemila se non la rapida fine delle sicurezza in meno di dieci anni. Che le crisi succedutesi erano proprio lì per scrollare l’albero del vatuttobene al quale ci eravamo abbarbicati con violento e insano desiderio. Che cosa ci aveva sottratto?
1.   La sicurezza economica, che ormai sapevamo in balia di fattori incontrollabili, ai più per lo meno.
2.   La sicurezza finanziaria, con risparmi di una vita esplosi in una qualcune delle bolle recenti: e-commerce, immobiliare, bondargentina.
3.   La sicurezza sanitaria, con febbri aviarie e suine e chissà che altro, che ci mancavano solo quelle floreali per metterci a terra.
4.   La sicurezza che la natura fosse nostra alleata o per lo meno sodale, mentre invece continuava ad attentare a noi con scrolloni e inondazioni da ogni lato.
5.   La sicurezza tout court, che c’era da ringraziare se il sole fosse calato sul pianeta senza lo che sfregio di un attentato avesse insultato il giorno, e ogni mattina uscivi con dentro l’ansia, sommessa e nascosta, che alla sera potevi contarti e mancava qualcuno.
Questo era il mondo che ci aveva regalato il nuovo splendido millennio. Glielo avrei restituito volentieri in cambio dalla rassicurante piattezza degli anni Settanta.
Eppure, in questo mondo impossibile, per dirla con Memo Remigi, che pochi sanno chi sia ma Wikipedia può aiutare, ora vedevo un filo, un sentiero. Una voce mi sussurrava, modesta e coraggiosa, che cera comunque un senso, e una via d’uscita.
Per questo baldanzosamente attraversai la strada, sorridendo mi presentati, e con calore salutai Parioletti e i soliti due che mi attendevano per la presentazione della mia proposta.

giovedì 2 febbraio 2012

Qui sarebbe cambiato qualche cosa


Prossimo post Lunedì 6 febbraio


Poi tutto scomparve nel momento in cui una coppia vociante venne a sedersi nel tavolo alle mie spalle discutendo di non so quale impegno di lavoro.
Mi alzai, e bevvi il caffè direttamente la bancone. Mancavano dodici minuti all’appuntamento con Parioletti. Pagai. Rimasi immobile al centro del locale, fingendo di guardare nel portafogli, mentre in realtà cercavo di trovare in me la forza per affrontare ciò che sarebbe successo di lì a poco.
Perché sentivo che qui sarebbe cambiato qualche cosa. L’incontro recente con Pedretti, mi sembrava stessero indicando una strada, una via di fuga da quel deserto che la crisi finanziaria aveva steso intorno a me. La crisi finanziaria poi, a pensarci bene era da quando avevo intrapreso la libera professione e messo su il mio studio da consulente. Perché questo millennio, così atteso da celebrarlo con sfarzi da satrapi orientali di prima di Cristo, sembrava essere stato più tarlato dal millennium bug che non dalle danze sui resti del muro di Berlino. Invece che liberare la fantasia e lanciarci verso un futuro senza più barriere, sembrava roso dentro da un verme che ne risucchiasse l’anima. Perché questa era l’impressione del primo decennio: una scorza vuota che implode lentamente su un nucleo che marcisce senza consapevolezza.

lunedì 30 gennaio 2012

Il ghiacciaio del Lyskam


Prossimo post Giovedì 2 febbraio



Mi vidi addentare un analogo panino, seduto sopra una pietra, dietro le spalle a pochi metri da un dirupo che si spalancava verso il ghiacciaio del Lyskam.  Davanti potevo gettare lo sguardo sin oltre Gressoney la Trinité, fin dove la valle sterzava affannata chiudendosi nel cozzare di due pendii verdi di alberi fitti. A destra invece si scorgeva la valle di Champoluc, tanto ariosa e solare quando quella del Lys sembrava timida e ingobbita, a proteggere una intimità che pretendeva di nascondere chissà quali misteri e tesori. Sotto i piedi una pietraia rossa, venata di marrone, dove solo qualche bollo giallo e bianco svelava un sentiero che, se percorso fino alla fine, avrebbe condotto al rifugio Quintino Sella, dopo circa un’altra ora di cammino dal punto dove mia moglie ed io ci eravamo fermati, non solo per il pranzo, ma anche per porre fine alla salita. Colpiva il silenzio, così serrato che persino il vento non osava cantare tra i sassi, come atterrito di essere l’unica voce a sfidare l’assenza di suoni.  Mi afferrò il ricordo del sole, caldo senza essere torrido, e gentile nello sciogliere il colore del cielo. Contemporaneamente mi salì al cuore uno struggimento ruvido, tepore irritante e pistone rumoroso, senza che ne capissi l’origine né lo scopo, perché tutto ha uno scopo, solo a trovare il filo da dipanare, e mi trovai a vacillare, pur essendo seduto, come colpito con vigore da una mano sulla spalla, una mano che scuotendomi volesse al contempo svegliarmi e sfidarmi, volesse saggiare la mia solidità, e rassicurare, ma con goffaggine tale da provocare invece un senso di incompiuta fragilità, il bisogno di cercare un fondamento saldo. E mi sembrava di vivere tutto questo essendo contemporaneamente lì, in quel bar lucido e banale, e seduto sulla cima della montagna a guardare giù, ossia dentro di me, mescolando i due stati in una confusa musica aurorale. Mi venne in soccorso una nuova immagine, talmente assurda da trarmi fuori da quello stato indeciso e vacuo: mi vidi secco e terso, il braccio destro teso, in modo da squadrare la mia figura, renderla perfetta nella geometria di un corpo che si staglia secco tra la folla, mentre sporgendomi intimavo ad un taxi di arrestarsi e caricarci sulla Fifth Avenue a New York, poco oltre la Public Library, con una autorità che mai mi ero scoperto addosso. 
Fu un lampo. 

lunedì 23 gennaio 2012

La memoria è un ripostiglio


Prossimo post giovedì 26 gennaio


Mia moglie dice che la memoria è come un ripostiglio: quando sei giovane c’è un sacco di spazio che cerchi di utilizzare al meglio. Man mano che i ricordi si accumulano, con fatica cerchi di tenere un ordine logico, che ti permetta di ritrovare con facilità ciò che cerchi. Ben presto però ti rendi conto che lo sforzo è inutile perché è molto difficile decidere che cosa gettare via subito e cosa conservare per la vita, per cui abbandoni l’idea di catalogare, di fissare un criterio e finisci per buttare dentro alla rinfusa, cercando solo di trovare uno spazio ancora libero. E’ chiaro che così facendo diventa pressoché impossibile ritrovare alla bisogna un nome, un volto, un indirizzo, un’immagine, perché il cassetto dov’è conservato è ormai sepolto sotto valanghe di altre immagini, altri indirizzi, altri volti, altri nomi. E così, come in un solaio dove ormai non entri più per evitare che dolore si aggiunga a dolore, smetti di cercare di ricordare. Fino a quando un sapore, una voce improvvisa e inattesa, non schiude per qualche strano gioco del destino, la finestra giusta. E allora ritrovi il filo, che ti conduce dove non sai neppure e ti trovi davanti ad un ricordo tagliente, lucido, senza neppure un velo di polvere, che parla secco e aspro al cuore, che pretende attenzione.
Fu così che mentre mangiavo un panino, seduto ad un tavolino esterno di un bar poco lontano dalla sede della HAL servizi, fui aggredito da un’immagine che risaliva a qualche anno prima

lunedì 16 gennaio 2012

La teologia del lavoro

Prossimo post lunedì 23 gennaio



Questa è passione, pensai. Che cosa posso fare per lui.
“E lei vorrebbe che questa storia diventasse parte di ciò che vende, che le persone che scelgono i vostri rubinetti ripercorrano nella loro coscienza questo tragitto per cogliere il valore che ha permesso un gesto così automatico da diventare inavvertito. Che quando le madri insistono con i figli perché questi si lavino le mani, trasmettano loro questa consapevolezza profonda del lavoro dell’uomo e del suo significato”.
Sì. E’ quello che vorrei. Vorrei fare cultura, oserei dire teologia”.
“La capisco. Anzi la ringrazio per avermi aperto gli occhi su questo mistero. Per avermi ricordato il gusto della vita”.
Sembrò scosso da quello che avevo detto. Per inciso era esattamente ciò che pensavo. Non stavo prendendomi gioco di lui rispondendo ciò che si aspettava da me. Mi fissò a lungo, con uno sguardo che sentii scendere fin nel più buio angolo della mia anima. Si ritrasse da quella esplorazione con un’espressione in parte sorpresa in parte rassicurata, sicuramente soddisfatta. Mi sorrise. Risposi senza eccedere, come a confermare una scoperta a lungo attesa, con quella asciutta austerità che connota molte amicizie maschili, dove le parole non solo non aiutano, ma danneggiano, rivelando la falsità che cercano invano di nascondere.
Torniamo in ufficio. Ci sono un paio di cose che può fare per me”.
Quando risalii in macchina mezz’ora dopo, prima di spostare il pensiero sul Parioletti al quale stavo andando a illustrare la mia proposta, mi soffermai a riflettere su quello strano incontro, nato difficile e completato come una sinfonia. Provai un piacere leggero. Avevo scoperto un uomo che credeva che anche produrre rubinetti potesse avere un senso nell’ordine della vita. E che alla fine mi aveva chiesto di fargli una proposta per un piano di miglioramento della sua strategia commerciale, con particolare riferimento all’esportazione. Mi parve però che più che trovare un nuovo cliente, avevo scoperto un potenziale amico, una persona con la quale condividere il senso del lavoro.
Un buon inizio di settimana. 

domenica 8 gennaio 2012

La storia dei rubinetti

Prossimo post lunedì 16 gennaio 2012



Esatto. C’è spesso una guerra di prezzi tra questi canali e bisogna differenziare i prodotti”.
Proseguimmo a parlare. Intravvedevo una strada e iniziavo a capire che cosa lo preoccupasse realmente. Da un lato una forza vendita non all’altezza, dall’altro la gestione dei magazzini. Bene. Su questo potevo realmente dargli una mano.
Si infervorò nella descrizione dei suoi prodotti più recenti. Si alzò di scatto. Mi invitò ad andare con lui in magazzino per toccare con mano quanto fossero ben fatti. Tenendo in mano un rubinetto snello, che riusciva a trasmettere al contempo una sana impressione di solidità insieme ad un a sensazione di lievità poetica, come se la canna si confondesse con il getto d’acqua che avrebbe liberato.
Vede questo prodotto da bagno? Lei non immagina neanche la sua storia. Partiamo dall’acciaio. E’ stato colato in una fabbrica buia e puzzolente, dove la temperatura raggiunge spesso valori insopportabili. Una specie di antro di vulcano. I colori sono bruciati. Nonostante si tratti di costruzioni alte anche parecchie decine  metri, tutto sembra schiacciato. Lì dall’alto forno sgorga la colata rossa che poi diventerà acciaio. E siamo solo all’inizio. La barra o il panetto è stato rinchiuso in un container anonimo, ma ben schedato, e caricato nella stiva di una nave del valore di milioni di dollari. Ha atteso che la pancia della nave fosse gonfia e senza più spazi liberi e poi si è mosso, insieme a chissà quali altri oggetti o materie prime, dalle acque cinesi che stanno di fronte al Giappone per scivolare rapido e stabile lungo il mari una volta infestati dai pirati della Malesia, noncurante di tempeste o bonacce, ormai armi spuntate della natura contro di loro. Ha vista l’alba al largo di Macao, ha scorto di lontano, nel tramonto le Maldive e le Laccadive, immagini fissate sulle retine di quei marinai che in quel momento stavono fermi a fumare appoggiati al corrimano, e che non hanno mostrato nei confronti di questo panorama lo stesso trasporto che molte coppie avrebbero se il loro sogno di trascorrere anche una sola settimana in questi paradisi turistici diventasse finalmente realtà. Ha sobbalzato, forse, quando la nave si è infilata nel canale di Suez, varcando senza che nessuno ne provasse profonda consapevolezza, il limite invisibile che separa l’Africa dall’Europa. Quando il bastimento ha infine attraccato a Livorno, nessuno dei controllori toscani si è minimamente soffermato a chiedere ai naviganti che cosa avessero provato nel percorrere una rotta che li aveva messi in collegamento con un mondo che non conoscevano o come avevano mangiato la sera prima o se l’alba nell’Oceano indiano avesse scosso le loro anime oppure li avesse lasciati indifferenti. 
Nulla di questo. E poi il panetto viene caricato sul vagone del treno e attraverso poi un furgoncino, presumibilmente, giunge alla foce del nostro canale produttivo, poco lontano da Piombino, presso acque calme e torbide.
Qui il panetto deve essere di nuovo fuso per poter prendere la forma dello stampo, realizzato secondo il disegno dei nostri tecnici. Solo allora la massa perde la sua ordinata informità per diventare viva, per assumere i tratti di questo capolavoro. Ma è ancora inutilizzabile finché, amorevolmente trasportato da un camion, non ha percorso i trecento chilometri che separano la nostra fabbrica siderurgica dal capannone dell’assemblaggio. Qui mani guantate estraggono dagli scatoloni i corpi uno ad uno, con delicatezza. Li depongono sui banconi dove le nostre addette li chiamano al loro compito. Si inserisce la valvola, che ha seguito un cammino diverso, è stata lentamente composta partendo da pezzi apparentemente sgraziati e tronchi, fino a diventare un gioiello di tecnologia, un dosatore capace di miscelare l’acqua con saggezza per offrire una miscela rassicurante. Le vedo le signore che accarezzano la loro creazione quasi con affetto prima di incelofanarla e riporla nella scatola che viene conservata nel magazzino. Riposano lì poco prima che gli esperti di logistica li prelevino per affidarli agli spedizionieri che li conducono al luogo dove verranno trovati da chi li cerca con tanta passione. Solo alla fine, montati ad arte sul tubo, prendono vera vita e con gioia si lasciano guidare per donare l’acqua. E chi sotto il getto mite si lava le mani, quasi ignorando il prodigio che glielo consente, non sa nulla di tutto questo viaggio. Non prova neppure a pensare che quell’aggeggio così elegante è stato un tempo sasso e polvere. Non eleva nemmeno un pensiero agli operai sudati che spendono le loro vite in paesi lontani, in grotte di cemento, per trasformare la terra. Non prova un senso di gratitudine perché quel gesto così banale e stanco che compie prima di sedersi a tavola, ha richiesto fatica e dolore, cura e delicatezza, per condurre a lui, da chissà quale cima di montagna solitaria e cruda, quel rivolo d’acqua che il nostro rubinetto gli guida con amore sulle mani sporche, che chissà che cosa hanno toccato prima di sporgersi sul lavandino. Vede. Abbiamo perso la coscienza di questo. La cosa mi fa un po’ soffrire. Noi invece ce l’abbiamo ben presente. E’ la nostra vita. E’ un po’ come chiamare fuori dalla pietra il Mosé”. 
Questa è passione, pensai. Che cosa posso fare per lui.