lunedì 30 gennaio 2012

Il ghiacciaio del Lyskam


Prossimo post Giovedì 2 febbraio



Mi vidi addentare un analogo panino, seduto sopra una pietra, dietro le spalle a pochi metri da un dirupo che si spalancava verso il ghiacciaio del Lyskam.  Davanti potevo gettare lo sguardo sin oltre Gressoney la Trinité, fin dove la valle sterzava affannata chiudendosi nel cozzare di due pendii verdi di alberi fitti. A destra invece si scorgeva la valle di Champoluc, tanto ariosa e solare quando quella del Lys sembrava timida e ingobbita, a proteggere una intimità che pretendeva di nascondere chissà quali misteri e tesori. Sotto i piedi una pietraia rossa, venata di marrone, dove solo qualche bollo giallo e bianco svelava un sentiero che, se percorso fino alla fine, avrebbe condotto al rifugio Quintino Sella, dopo circa un’altra ora di cammino dal punto dove mia moglie ed io ci eravamo fermati, non solo per il pranzo, ma anche per porre fine alla salita. Colpiva il silenzio, così serrato che persino il vento non osava cantare tra i sassi, come atterrito di essere l’unica voce a sfidare l’assenza di suoni.  Mi afferrò il ricordo del sole, caldo senza essere torrido, e gentile nello sciogliere il colore del cielo. Contemporaneamente mi salì al cuore uno struggimento ruvido, tepore irritante e pistone rumoroso, senza che ne capissi l’origine né lo scopo, perché tutto ha uno scopo, solo a trovare il filo da dipanare, e mi trovai a vacillare, pur essendo seduto, come colpito con vigore da una mano sulla spalla, una mano che scuotendomi volesse al contempo svegliarmi e sfidarmi, volesse saggiare la mia solidità, e rassicurare, ma con goffaggine tale da provocare invece un senso di incompiuta fragilità, il bisogno di cercare un fondamento saldo. E mi sembrava di vivere tutto questo essendo contemporaneamente lì, in quel bar lucido e banale, e seduto sulla cima della montagna a guardare giù, ossia dentro di me, mescolando i due stati in una confusa musica aurorale. Mi venne in soccorso una nuova immagine, talmente assurda da trarmi fuori da quello stato indeciso e vacuo: mi vidi secco e terso, il braccio destro teso, in modo da squadrare la mia figura, renderla perfetta nella geometria di un corpo che si staglia secco tra la folla, mentre sporgendomi intimavo ad un taxi di arrestarsi e caricarci sulla Fifth Avenue a New York, poco oltre la Public Library, con una autorità che mai mi ero scoperto addosso. 
Fu un lampo. 

lunedì 23 gennaio 2012

La memoria è un ripostiglio


Prossimo post giovedì 26 gennaio


Mia moglie dice che la memoria è come un ripostiglio: quando sei giovane c’è un sacco di spazio che cerchi di utilizzare al meglio. Man mano che i ricordi si accumulano, con fatica cerchi di tenere un ordine logico, che ti permetta di ritrovare con facilità ciò che cerchi. Ben presto però ti rendi conto che lo sforzo è inutile perché è molto difficile decidere che cosa gettare via subito e cosa conservare per la vita, per cui abbandoni l’idea di catalogare, di fissare un criterio e finisci per buttare dentro alla rinfusa, cercando solo di trovare uno spazio ancora libero. E’ chiaro che così facendo diventa pressoché impossibile ritrovare alla bisogna un nome, un volto, un indirizzo, un’immagine, perché il cassetto dov’è conservato è ormai sepolto sotto valanghe di altre immagini, altri indirizzi, altri volti, altri nomi. E così, come in un solaio dove ormai non entri più per evitare che dolore si aggiunga a dolore, smetti di cercare di ricordare. Fino a quando un sapore, una voce improvvisa e inattesa, non schiude per qualche strano gioco del destino, la finestra giusta. E allora ritrovi il filo, che ti conduce dove non sai neppure e ti trovi davanti ad un ricordo tagliente, lucido, senza neppure un velo di polvere, che parla secco e aspro al cuore, che pretende attenzione.
Fu così che mentre mangiavo un panino, seduto ad un tavolino esterno di un bar poco lontano dalla sede della HAL servizi, fui aggredito da un’immagine che risaliva a qualche anno prima

lunedì 16 gennaio 2012

La teologia del lavoro

Prossimo post lunedì 23 gennaio



Questa è passione, pensai. Che cosa posso fare per lui.
“E lei vorrebbe che questa storia diventasse parte di ciò che vende, che le persone che scelgono i vostri rubinetti ripercorrano nella loro coscienza questo tragitto per cogliere il valore che ha permesso un gesto così automatico da diventare inavvertito. Che quando le madri insistono con i figli perché questi si lavino le mani, trasmettano loro questa consapevolezza profonda del lavoro dell’uomo e del suo significato”.
Sì. E’ quello che vorrei. Vorrei fare cultura, oserei dire teologia”.
“La capisco. Anzi la ringrazio per avermi aperto gli occhi su questo mistero. Per avermi ricordato il gusto della vita”.
Sembrò scosso da quello che avevo detto. Per inciso era esattamente ciò che pensavo. Non stavo prendendomi gioco di lui rispondendo ciò che si aspettava da me. Mi fissò a lungo, con uno sguardo che sentii scendere fin nel più buio angolo della mia anima. Si ritrasse da quella esplorazione con un’espressione in parte sorpresa in parte rassicurata, sicuramente soddisfatta. Mi sorrise. Risposi senza eccedere, come a confermare una scoperta a lungo attesa, con quella asciutta austerità che connota molte amicizie maschili, dove le parole non solo non aiutano, ma danneggiano, rivelando la falsità che cercano invano di nascondere.
Torniamo in ufficio. Ci sono un paio di cose che può fare per me”.
Quando risalii in macchina mezz’ora dopo, prima di spostare il pensiero sul Parioletti al quale stavo andando a illustrare la mia proposta, mi soffermai a riflettere su quello strano incontro, nato difficile e completato come una sinfonia. Provai un piacere leggero. Avevo scoperto un uomo che credeva che anche produrre rubinetti potesse avere un senso nell’ordine della vita. E che alla fine mi aveva chiesto di fargli una proposta per un piano di miglioramento della sua strategia commerciale, con particolare riferimento all’esportazione. Mi parve però che più che trovare un nuovo cliente, avevo scoperto un potenziale amico, una persona con la quale condividere il senso del lavoro.
Un buon inizio di settimana. 

domenica 8 gennaio 2012

La storia dei rubinetti

Prossimo post lunedì 16 gennaio 2012



Esatto. C’è spesso una guerra di prezzi tra questi canali e bisogna differenziare i prodotti”.
Proseguimmo a parlare. Intravvedevo una strada e iniziavo a capire che cosa lo preoccupasse realmente. Da un lato una forza vendita non all’altezza, dall’altro la gestione dei magazzini. Bene. Su questo potevo realmente dargli una mano.
Si infervorò nella descrizione dei suoi prodotti più recenti. Si alzò di scatto. Mi invitò ad andare con lui in magazzino per toccare con mano quanto fossero ben fatti. Tenendo in mano un rubinetto snello, che riusciva a trasmettere al contempo una sana impressione di solidità insieme ad un a sensazione di lievità poetica, come se la canna si confondesse con il getto d’acqua che avrebbe liberato.
Vede questo prodotto da bagno? Lei non immagina neanche la sua storia. Partiamo dall’acciaio. E’ stato colato in una fabbrica buia e puzzolente, dove la temperatura raggiunge spesso valori insopportabili. Una specie di antro di vulcano. I colori sono bruciati. Nonostante si tratti di costruzioni alte anche parecchie decine  metri, tutto sembra schiacciato. Lì dall’alto forno sgorga la colata rossa che poi diventerà acciaio. E siamo solo all’inizio. La barra o il panetto è stato rinchiuso in un container anonimo, ma ben schedato, e caricato nella stiva di una nave del valore di milioni di dollari. Ha atteso che la pancia della nave fosse gonfia e senza più spazi liberi e poi si è mosso, insieme a chissà quali altri oggetti o materie prime, dalle acque cinesi che stanno di fronte al Giappone per scivolare rapido e stabile lungo il mari una volta infestati dai pirati della Malesia, noncurante di tempeste o bonacce, ormai armi spuntate della natura contro di loro. Ha vista l’alba al largo di Macao, ha scorto di lontano, nel tramonto le Maldive e le Laccadive, immagini fissate sulle retine di quei marinai che in quel momento stavono fermi a fumare appoggiati al corrimano, e che non hanno mostrato nei confronti di questo panorama lo stesso trasporto che molte coppie avrebbero se il loro sogno di trascorrere anche una sola settimana in questi paradisi turistici diventasse finalmente realtà. Ha sobbalzato, forse, quando la nave si è infilata nel canale di Suez, varcando senza che nessuno ne provasse profonda consapevolezza, il limite invisibile che separa l’Africa dall’Europa. Quando il bastimento ha infine attraccato a Livorno, nessuno dei controllori toscani si è minimamente soffermato a chiedere ai naviganti che cosa avessero provato nel percorrere una rotta che li aveva messi in collegamento con un mondo che non conoscevano o come avevano mangiato la sera prima o se l’alba nell’Oceano indiano avesse scosso le loro anime oppure li avesse lasciati indifferenti. 
Nulla di questo. E poi il panetto viene caricato sul vagone del treno e attraverso poi un furgoncino, presumibilmente, giunge alla foce del nostro canale produttivo, poco lontano da Piombino, presso acque calme e torbide.
Qui il panetto deve essere di nuovo fuso per poter prendere la forma dello stampo, realizzato secondo il disegno dei nostri tecnici. Solo allora la massa perde la sua ordinata informità per diventare viva, per assumere i tratti di questo capolavoro. Ma è ancora inutilizzabile finché, amorevolmente trasportato da un camion, non ha percorso i trecento chilometri che separano la nostra fabbrica siderurgica dal capannone dell’assemblaggio. Qui mani guantate estraggono dagli scatoloni i corpi uno ad uno, con delicatezza. Li depongono sui banconi dove le nostre addette li chiamano al loro compito. Si inserisce la valvola, che ha seguito un cammino diverso, è stata lentamente composta partendo da pezzi apparentemente sgraziati e tronchi, fino a diventare un gioiello di tecnologia, un dosatore capace di miscelare l’acqua con saggezza per offrire una miscela rassicurante. Le vedo le signore che accarezzano la loro creazione quasi con affetto prima di incelofanarla e riporla nella scatola che viene conservata nel magazzino. Riposano lì poco prima che gli esperti di logistica li prelevino per affidarli agli spedizionieri che li conducono al luogo dove verranno trovati da chi li cerca con tanta passione. Solo alla fine, montati ad arte sul tubo, prendono vera vita e con gioia si lasciano guidare per donare l’acqua. E chi sotto il getto mite si lava le mani, quasi ignorando il prodigio che glielo consente, non sa nulla di tutto questo viaggio. Non prova neppure a pensare che quell’aggeggio così elegante è stato un tempo sasso e polvere. Non eleva nemmeno un pensiero agli operai sudati che spendono le loro vite in paesi lontani, in grotte di cemento, per trasformare la terra. Non prova un senso di gratitudine perché quel gesto così banale e stanco che compie prima di sedersi a tavola, ha richiesto fatica e dolore, cura e delicatezza, per condurre a lui, da chissà quale cima di montagna solitaria e cruda, quel rivolo d’acqua che il nostro rubinetto gli guida con amore sulle mani sporche, che chissà che cosa hanno toccato prima di sporgersi sul lavandino. Vede. Abbiamo perso la coscienza di questo. La cosa mi fa un po’ soffrire. Noi invece ce l’abbiamo ben presente. E’ la nostra vita. E’ un po’ come chiamare fuori dalla pietra il Mosé”. 
Questa è passione, pensai. Che cosa posso fare per lui.