Capitolo primo
Giuro che l’avrei fatto. Se me ne avessero dato il tempo.
L’avrei fatto, anche se non è nel mio stile, nel mio temperamento. Perché
andava fatto. Una questione di giustizia. È successo tutto così in fretta. E
così sono seduto qui dove sono seduto. Con questa luce accecante che mi picchia
negli occhi. Mi guardano. Duri. Spietati. Chini in avanti nell’attesa. E si
aspettano che parli. Subito. In fretta. Che spieghi tutto. Che dica. Che
chiarisca. Che confessi. Che dia
senso.
Ma andiamo per ordine.
Tutto iniziò con una telefonata. Ricordo esattamente quel
momento. Inizio ottobre. La fine del pomeriggio. Un sole diluito spingeva luce
scialba giù dal cielo infossando le montagne ed affogando il panorama in un
chiarore imberbe e vanitoso. Ero al chilometro 254 dell’autostrada A1. Risalivo
da Firenze verso Milano. Sta superando un autoarticolato. Proprio mentre
ultimavo la curva, chiudendo anche il sorpasso appena prima di immettermi in
una galleria, il telefono suonò. Numero sconosciuto.
“Dottor Codega? Sono Parioletti, amministratore delegato di
HAL servizi. Mi ha parlato di lei un comune amico, Magnaga. Vorrei incontrarla,
abbiamo bisogno del suo aiuto. Vorrei capire che cosa non va in azienda. Quando
può venire a trovarmi?”
Disse tutto così, senza nemmeno respirare. Secco. E io non
potevo nemmeno fermarmi per prendere nota o controllare la mia agenda. La prima piazzola era a dodici
chilometri, appena dopo il valico. Non ce l’avrei mai fatta. Come si poteva dire di no. Con questa
crisi. Cercai di ricordare.
“Sono in auto, vado a memoria, che ne dice di venerdì
mattina, dopodomani? Per lei potrebbe essere un buon momento?”
“Mi faccia vedere. Per le 9.30? Siamo a Cernusco sul
Naviglio. La aspetto”.
“Dove trovo il vostro indirizzo esatto dr. Parioletti?”.
“Le mando un sms con l’indirizzo e le faccio spedire una
mail dalla mia assistente. Ci
vediamo venerdì. Buonasera”.
Non una parola di più.
Che cosa pensare? Mentre giungevo finalmente alla galleria
che spezza le reni all’Appennino, congiungendo quello che la montagna vorrebbe
dividere, mentre iniziavo la discesa verso Bologna, la prima sensazione fu di
gioia. Pura. Asciutta. Verde. Lo considerai un doppio dono. Primo: perché avevo
disperatamente bisogno di lavorare. Secondo: perché quell’emozione così
infantile e morbida trascinava con sé una certezza. Mi sentivo sicuro. Mi venne
in mente quella struggente canzone di Tenco “Vedrai vedrai, non son finito sai.
Non si dirti come o quando, ma un bel giorno cambierà”.
E poi voleva dire che quell’idea di chiedere aiuto ai
clienti per cercare nuove opportunità stava funzionando. Ricordavo quando avevo
preso la risoluzione di tentare anche questa soluzione. Ero solo sdraiato sul
setto di una sobria camera d’hotel a Cosenza. La finestra mezza socchiusa,
compromesso tra il desiderio di cacciare fuori il fumo della mia pipa e il
tentativo di tenere fuori il caldo avvolgente del tardo pomeriggio. Leggevo un
saggio di una autrice americana che si definisce la regina delle referenze. Ondeggiavo
indeciso tra l’applicazione dei suoi consigli e il timore che si trattasse
della solita americanata, quando fui colpito da una parola, una sola banale
parola: fiducia. Chissà quante volte l’avevo letta prima di allora. Eppure lì,
nel clima unto della stanza, la pipa che sbuffava lenta e morbida, la luce che
entrava di taglio, tra le strisce della tapparella semi-abbassata, e segava in
due le mie gambe stese sul letto, lì in quel momento mi sembrò quasi una
invocazione, una chiamata, una richiesta. E mi ero deciso. Vincendo così la mia
insospettabile timidezza, avevo deciso di mettere in pratica la vendita
referenziata. Mi ero preparato il discorso seguendo le istruzioni del saggio. E
tra i primi contatti mi ero rivolto proprio al Magnaga. Quindi l’aveva fatto,
mi aveva aiutato.
Pensavo a queste cose e cercavo di mettere ordine sia al
passato, per capire in quale modo avrei potuto imparare dall’esperienza così da
poterne trarre vantaggio, sia al futuro, per evitare ogni rischio di errore. E
mi irritavo con me stesso per l’impossibilità di trovare un linguaggio che non
mi facesse piombare nella banalità di quelle parole sdrucite e scucite,
ereditate da culture straniere, che avevano imperiosamente preso possesso della
nostra lingua, ossessionando sia chi le usava con tono volgare, per ammantarsi
di un volano di esteromania, sia chi le pronunciava con vergogna e pudore.
A volte la mia mente restava imprigionata in questi circoli
viziosi. Non ne capivo il motivo. Li sentivo come amici pericolosi, capaci di
stimolare il pensiero, ma anche di condurlo verso deserti dai quale sarebbe
stato impossibile fuggire. C’era sempre stata qualche opportuna interruzione
che mi aveva salvato sulla soglia della trappola. Quella volta fu lo sfarettare
dei una Mercedes lanciata ben oltre il consentito, giù per i declivi secchi e
arrotondati, che voleva a tutti i costi superarmi. Lo feci passare appena
possibile.
Che cosa dovessi fare quel venerdì seguente era presto
detto: nulla. Il momento non era dei migliori e se ero riuscito a rimanere a
pelo d’acqua fino a luglio,
iniziavo a sentirmi trascinare verso il fondo dall’assenza, quasi completa, di
nuovi progetti. Il che ovviamente era fonte per me sia di immediata
preoccupazione sia di domanda pungente sul futuro. C’era un futuro? In quella
professione? Poiché cercavo risposte nei messaggi che la vita mi mandava, più
che in me, atteggiamento che peraltro coltivo ancora, ritenni che la chiamata
del Pariolini fosse un segno che
sì, c’era ancora spazio per continuare a svolgere quello che alcuni taglienti
amici definivano “un hobby poco costoso” e che per la mia famiglia avrebbe
dovuto essere la fonte di futuro.
Dovevo saperne di più di questo Pariolini e della sua
azienda. A cominciare dal fatto che si chiamava Parioletti e non Pariolini.
Chiamai in ufficio e chiesi a Irene di svolgere una indagine per raccogliere
quanto più dati trovasse. Amo
essere preparato quando incontro un potenziale cliente, non è solo una faccenda
di professionalità, ma anche di onore, di lealtà. Mi sento veramente coinvolto
nelle loro vicende, nelle loro aspettative. Capisco che sia ingenuo, e forse
questa è una delle ragioni del mio… stavo per dire insuccesso, ma non è vero.
Non è insuccesso il termine corretto. Piuttosto sottovalutazione. Mi presento con
un profilo sommesso. Che non vuol dire sottomesso. Ma piuttosto... umile. Low
profile dicono. Perché detesto l’immagine del consulente arrogante. Già sono
milanese. Figuriamoci. E perché dovrei affrontarti con cipiglio furioso, e
sguardo da “ma ha capito chi sono io?”. Eppure questo sembra pagare. Non si
spiegherebbe perché mi ascoltano, annuiscono, pensano di fare altro,
interpellano altri, che consigliano loro di fare esattamente quello che avevo
suggerito io, lo fanno, me lo
dicono, mi dicono “è proprio quello che ci aveva detto lei”, e sorridono. E io
non riesco neppure a dir loro in faccia: “ma vai a c….!”.
Era quindi importante che con questo Parioletti mi ponessi
fin da subito con il giusto standing: ecco, l’ho fatto. Dovevo dire con la
giusta immagine. Ma non è la stessa cosa. Io poi questa cosa qui di proiettare
sogni positivi per generare l’atteggiamento corretto non l’ho mai bevuta. O per
lo meno, è un po’ come gli oroscopi o certe altre superstizioni: non ci credo.
Certo che bisogna avere speranza, e che questa genera pazienza innanzitutto e
poi umiltà. Ma guardare fisso davanti a te ripetendo come un idiota “ce la
farò, ce la farò”…. non è nelle mie corde.
Eppure, quel giorno, scivolando giù rapidamente verso
Bologna, fui come rapito da una sensazione, come un déjà vu futuro. Guardavo il
panorama, che è proprio bello anche quando la luce non gli rende merito, e mi
sentii rapito da una dolcezza inspiegabile, che inondava il mio animo
spalancando porte e botole che avevo ormai sepolto sotto valanghe di
calcinacci, difese per impedire che tornassero alla memoria ricordi densi e
profondi. Vedevo le nuvole stirate sopra san Petronio, in un cielo teso come un
lenzuolo pulito sul letto, e i contorni degli alberi sulle colline, in fila
come una cordata alla conquista di una vetta incorrotta.
E in quel momento, come per un segnale misterioso, una forza
estranea, vennero fuori tutti insieme e tutti pretendevano udienza. Ne fui
turbato, ma in modo sereno e lieve.
Dico questo perché quel momento fu determinante per il mio
futuro, per segnare il corso delle vicende che seguirono, in quanto mi fu
impossibile disgiungere da Parioletti e la sua azienda, quel sentimento
vigoroso e dolce che mi aveva solcato l’animo tessendo un ponte tra passato e
futuro. So che è un mio limite quello di non riuscire ad anestetizzare l’anima,
eppure è anche una ricchezza.
Fu il trillo del telefono, ancora una volta irruzione delle
realtà nel mio mondo di pensiero, a interrompere quel flusso di coscienza. Era
mia moglie.
Capitolo secondo
Se c’è una cosa che mi affascina delle telefonate di mia
moglie è la loro imprevedibilità: potrebbe liquidare tutto in sei parole oppure
sciogliere in tanti chilometri la nostra voglia di stare in qualche modo
vicini. O ancora di litigare. Già perché il nostro amore è anche abbastanza
rissoso. Senza conseguenze. Abbiamo superato la soglia dei trent’anni di vita
in comune, non dico che questo garantisca
un finale in scioltezza, ma l’abitudine rassicura. Perché l’amore è
fatto anche di banalità, che a vederle bene sono tutt’altro che superficiali,
anzi piuttosto radicate. E la consuetudine le lega in un filo che sembra così
sottile da non poter essere spezzato: vuoi per noia, vuoi per non dover
inventarsi tutto da capo, vuoi perché questo è un modo elegante e umile per
dire che non posso fare a meno di te. Come assuefatto. Così mi sento. E
nonostante ciò litighiamo. Questa volta siamo nella modalità morbidosa. Sono
fuori da due giorni e, mi fa piacere constatarlo anche questa volta, è la
nostalgia a prevalere. Ci raccontiamo. Puntualizza le sfide della giornata. Mi
chiede quando arrivo. Mi dice dei figli. Le parlo di Parioletti. Sorride. La
vedo. “Ce n’è bisogno” aggiunge. “Lo so” puntualizzo. Sono già alla fine
dell’Appennino. Vedo in lontananza Cantagallo. “Un paio d’ore e sono a casa”.
“Che cosa vuoi per cena?”. Non me lo chiede realmente. Non è importante. O
invece lo è: ma non per raccogliere desideri gastronomici. Per mostrare la
cura. E’ in queste piccole cose che mi conferma che mi ama. Nel modo con il
quale stira una camicia, la domenica mentre io guardo le partite in televisione
e lei alle mie spalle, per farmi compagnia, io che forse in quel momento non la
vorrei proprio, stira in silenzio, o quasi, parlando sempre nei momenti meno
propizi -ma c’è forse un momento propizio per un uomo che guarda la
televisione?- vedo la pazienza che ha con me. E mentre io scivolo veloce verso
il nodo che tiene attaccata l’Italia, trattenendo le due coste grazie al nastro
autostradale che proprio qui, appena sopra Bologna si avviluppa, o si dipana a
seconda di come lo guardi, mentre rallento per evitare la fotografia sgradita
del dispositivo di controllo velocità, nascosto proprio sotto il ponte, lei mi
saluta.
In medias res. Torniamo al Parioletti.
Chissà se hanno fatto in tempo a raccogliere un po’ di
informazioni su di lui e la sua azienda? Chissà che cosa gli avrà detto il
Magnaga (chissà perché continuo a mettere gli articoli ai nomi?) Devo
prepararmi per bene. E preparare una grande apertura, perché lì c’è il segreto
del successo. Specie per un consulente direzionale che cerca di vendere le sue
competenze a un cliente che, per comperarle, deve innanzitutto credere di avere
bisogno di qualcuno che gli spieghi dove ha sbagliato. Se ci pensi, è una
follia. Il contrario di quello che insegna il mondo. Perché lui deve avere
sufficiente umiltà per capire che c’è qualcuno che può insegnargli qualche
cosa. E io avere sufficiente delicatezza per non fargli credere che ha
sbagliato tutto. Cosa che spesso accade. No. Non sto dicendo che la classe
imprenditoriale italiana sbaglia. Non in quel senso per lo meno. Ovvio che
errori ne commetta. Sarei stupito del contrario. È che spesso non li riconosce:
il padrone è convinto comunque di avere ragione.
E non dovrei più stupirmi dell’arroganza immersa nella
presunzione, che ogni volta trovo: invece ne resto addolorato, come ferito.
Perché confrontando quei modi rozzi e bruschi, un attentato alla ragione, con il mio modo di affrontare la
mia professione di consulente , ci vedo la ragione della mia sconfitta, del mio
perenne inseguire un sogno che si sposta sempre più in là, della mia incapacità
di affermare nei numeri quella supposta autorevolezza che cola dalle parole di
chi mi conosce e non mi compera. Al punto che mi chiedo se non ci sia un nesso
perverso e incidibile tra orgoglio e successo, come se ciò che contasse non
fossero i risultati, ma l’arroganza con la quale si millantano. Ne resto sempre
turbato perché nel mio intimo sono convinto della forza dell’umiltà, che mi
sembra di vedere invece fallire nella durezza della realtà, cruda, abbacinante,
imbiancata come un muro secco sotto il sole d’estate, quel famoso muro che reca
in cima cocci aguzzi di bottiglia, lungo il quale la mia vita sembra
prosciugarsi. Mi sgomentano, pur facendomi compassione, questi condottieri che
massacrano con eguale banalità persone ed idee, che pretendono senza nulla dare
in cambio, che richiedono strategie che loro non sono in grado nemmeno di
sfiorare con il pensiero, che non riescono a vedere più in là del loro
portafoglio, pieno oggi e domani si vedrà, perché questa grettezza paga,
restituisce, appaga. E le loro
frasi, ripiene parimenti di vocaboli stranieri dei quali si è perso il senso e
l’origine, come di termini sboccati e volgari, scheggiati i primi unti i
secondi, finiscono per sedimentarsi nel mio intimo con la violenza di una frana
che precipita nell’invaso e lo fa tracimare sommergendo ogni cosa, dilavando
tutto, confondendo. Eppure li vedo, seduti al vertice, brandire la loro arroganza
come scettro, marchio del possesso e del successo. Non vorrei confondermi con
queste figurine da album, e mi trovo ad invidiarle, provando vergogna per
questa invidia, provando terrore per il futuro che si arrotola come nuvole di
tempesta, un futuro che è sempre più breve, ad ogni istante che passa, e che
ormai non mi lascia più spazi, come il mazzo di un solitario, che non vuol tornare, che si assottiglia di
più ad ogni nuova carta che sei costretto a scartare perché non trova
collocazione nel disegno steso sul tavolo. Vorrei piangere qualche volta,
nell’inevitabile confronto, e mi trovo invece a sorridere, perché si deve pur
campare, perché tengo famiglia, moglie e quattro figli, che poi ti dicono
dovevi pensarci prima, ma prima quando? Quando la vita sembra spalancarsi rosa
come una aurora? E ti tradisce, vigliacca lei, non perché non te lo aspetti, ma
penseresti sempre che viene dopo il momento difficile, dopo quando sei pronto
per affrontarlo, e invece ti piomba addosso troppo presto, non senza cattiveria,
anche se mitigata dalla durezza dell’insegnamento, perché è proprio nelle
difficoltà che impari e in fretta. Sarà la stanchezza, sarà che la somma è
prossima all’ingorgo, ma questa durezza faccio fatica a smaltirla.
Ti guardano, picchiano sul tavolo sgombro con il loro indice
che vuol raccontare il loro trionfo, e parlano come macchiette, comiche sì ma
vincenti, come il tizio che ho in mente in questo istante e che incute tanto
timore quanta derisione nei suoi collaboratori, perché quando parla sembra la
caricatura di se stesso.
E così, questa icona dell’imprenditore, finisce nelle
parodie di Zelig, nei romanzi che parlano di lavoro, nell’immaginario di intere
generazioni. Come il cavalier Zampetti de I ragazzi della terza C. Anni d’oro
del serial italiano: la commedia casereccia spalmata in una quarantina di
puntate all’anno. Mica come Happy days. Di cavalier Zampetti ne ho incontrati
io, mi verrebbe da dire: io ne ho viste cose che voi umani… Eppure questo è il
mio mestiere. E deve partire dalla conquista della fiducia. Senza quella non si
fa un passo avanti. Perché lui deve annusarla, deve percepirla, deve leggerla
in ogni mia mossa: deve venirgli la voglia di comperare il mio tempo –questo è
quello che vendo: il tempo mio e dei miei colleghi- per metterlo al servizio
del suo scopo: fare più soldi qui e in futuro. E questa scintilla o scocca
subito o è buio per sempre: un buio muto, che magari si strina per due o tre
incontri, ma che si è già creato, come un enorme buco nero.
Di tal genere, se non tali appunto, erano i miei pensieri
mentre, dato l’addio ai monti e impegnata la pianura, già cercavo di capire
come costruire questa fiducia, basandomi sul collegamento con il Magnaga. Che
invece era un uomo retto e semplice. Un amico di vecchia data che avevo
conosciuto in una grande multinazionale, quando muovevo i primi passi da
consulente, e mi aveva colpito per quel suo tratto accorato, attento anche alla
scelta delle parole, che soppesava in lunghi silenzi. Era nata una amicizia
forte, di quelle che non impongono frequentazioni assidue, che era proseguita
anche nelle successive migrazioni del Magnaga in fine approdato al ruolo di
amministratore delegato della filiale di una azienda americana di servizi, dal
quale mi aveva realmente aiutato, ottenendone in cambio una infinita
riconoscenza e progetti sensati e di successo. Decisi di telefonargli per poter raccogliere quelle
informazioni che mi sarebbero state utili. Le ottenni proprio mentre superavo
il Po’ rientrando in Lombardia.
La strada sfilava monotona, scendeva la sera, senza fretta e
senza rancore. Quell’ora che, se la guardi senza proteggerti, ti si infila nel
cuore e lo sbreccia. E io, che ascoltavo per errore un jazz pacato e ondoso,
come un tramonto in mezzo al mare, non feci in tempo ad alzare le barriere.
Così la nostalgia si insinuò rapida e iniziò a spingere. E d’un tratto esplose.
Lasciandomi a raccattare i ritagli della mia vita.
Non è mai il momento di fare bilanci, semmai esami, poiché i
primi incatenano al passato, i secondi invece sono la porta del futuro. Il
confine che li separa è assai trasparente e non è facile capire da quale lato
ti trovi. Io guardai e rimasi intrappolato. E ciò che vidi mi spaventò perché
assomigliava molto ad un fallimento generale. Ne rimasi confuso. Feci fatica a
non cadere nel gorgo, oscillai sull’orlo del precipizio, trattenendomi al
presente perché in esso vedevo riflesso il futuro. E con un guizzo riuscii a
tirarmi fuori, non senza essere rimasto ferito. E mi ritrovai lì, come un
naufrago che si adagia sulla spiaggia che finalmente ha raggiunto, incapace di
capire se può rallegrasi per lo scampato pericolo, per essersi strappato ai
flutti, o se deve iniziare a preoccuparsi per ciò che troverà nell’ignota terra
che si spalanca dinnanzi a lui.
Questa terra per me era una speranza di lavoro. Non potevo
perderla. Dovevo combattere.
Quando finalmente aprii la porta di casa, e fui accolto
dall’affettuosa indifferenza della mia famiglia, avevo chiaramente in testa il
piano che avrei seguito per conquistare Parioletti.
Terminai di studiare con attenzione il mio prossimo
potenziale cliente verso l’ora di pranzo. Nel frattempo avevo consultato
compulsivamente la posta elettronica almeno dieci volte. L’ultima trovai una
sorpresa. Un cliente che avevo contattato tempo prima mi proponeva una data per
incontrarlo. Lunedì mattina. Una settimana decisamente fortunata.
Capitolo terzo
La distanza tra il mio ufficio e casa mia è sempre stata
molto più significativa del tempo che impiegavo a coprirla. Perché quel nido nel
traffico ha rappresentato per anni un rifugio solitario dalle tempeste della
quotidianità. Almeno finché le pareti della tana non sono state sbriciolate dal
cellulare, che ha reso impossibile isolarsi completamente. No, non è vero.
Basta un gesto brusco che faccia scattare l’interruttore. Il punto è che
richiede molta più volontà che energia. E non sempre la si trova. Ho percorso
milioni di volte la città per andare nelle varie sedi dove ho abitato.
Professionalmente si intende. E quegli spazi, dentro una macchina compressa nel
traffico, assediato dall’impazienza e dal livore –qualcuno renderà conto a Dio
per il tasso dell’odio scatenato dall’uso esagerato delle automobili: altro che
inquinamento da particelle sottili- ammorbidito dalla pipa, sono spesso stati
tutti miei, per ritrovare con l’aiuto di una musica sottile e lieve un
equilibrio pacato e acuto che potevo essere sul punto di smarrire.
Ora che questa distanza non supera il metro, da quando
l’ufficio occupa l’appartamento accanto al mio sul pianerottolo, comunque ha
assunto un significato importate: è la misura della libertà e il dinamometro
che valuta la capacità di rispettare la mia famiglia.
Percorsi i due passi che separano le due porte, quella
mattina di ottobre, ricordo: il sole scioglieva caldo i primi aliti freschi
dell’autunno, prima che Irene fosse arrivata, mi concentrai sull’incontro che
avrei avuto la mattina seguente con Parioletti.
Mi ha sempre stupito questa capacità delle stagioni di
annunciarsi sobrie e timorose, come a confonderti e a lasciarti l’inganno che
l’una non si scioglierà mai nell’altra, che non osa impadronirsi di cose e
cielo. E così quella mattina mi parlava di un tepore lieve e lieto, e mi
prospettava futuri non dico radiosi, ma per lo meno aurorali, sebbene la loro luminosità
avrebbe potuto facilmente confondersi con tonalità crepuscolari dalle quali
speravo di tenermi lontano ancora per un bel po’.
Parioletti dunque, imprenditore, titolare della HAL servizi,
azienda fondata dal di lui padre sul finire degli anni Settanta, attiva nel
settore della organizzazione di eventi, con due filiali internazionali, a
Bruxelles e a Parigi. Clienti prestigiosi, specie nel mondo della moda e del
lusso, circa 300 persone in Italia e un numero non precisato nelle filiali
estere. Luigi Parioletti compare spesso in interviste su riviste di settore e
quotidiani economici, a magnificare la qualità della vita offerta dalla propria
azienda, capace di valorizzare le persone, le quali sono il vero bene
dell’azienda, la quale grazie a questa comunione di affetti e intenti, è in
grado di garantire ai propri clienti il meglio in questo servizio. Due video su
Youtube nei quali LP viene intervistato da un giornalista che oserei definire
amico, e sorride sempre un po’ di sbieco alla videocamera, un sorriso tirato,
asciutto, rassicurante sì, ma più vicino a quello di Jack Nicholson che non a
quello di Harrison Ford.
Perché mi chiama? Che cosa vorrà? Anticipare: è necessario
capire prima per essere pronti. Studiamo. Ecco, forse: annuncia che intende espandere
la propria presenza in Europa, magari puntare all’Asia. E quotarsi in Borsa. E
per farlo c’è bisogno di una squadra attenta e allineata. Potrebbe essere
questo il punto. Proseguo nell’analisi del cliente e dei suoi clienti. E dei
suoi concorrenti. Bisogna avere tutto sul tavolo. Arriva Irene. Saluto, beviamo
un caffè, scambiamo due parole e poi insieme a lavorare su HAL servizi, chissà
perché a me viene sempre in mente il vincisporco di una pubblicità dei tempi di
Carosello.
Irene è una ammirevole assistente. Anche una piacevole
ragazza. Ragazza si fa per dire, almeno dal punto di vista anagrafico. Anche se
sono sempre tutte ragazze.
Ciò che apprezzo di lei è la sua capacità di non fermarsi
all’apparenza delle mie richieste. Non ha paura di mettermi in discussione,
qualità che apprezzo molto dato che mi aiuta a superare quella barriera di me
che non sempre riesco a penetrare, quella membrana che separa le mie idee dalla
mia presunzione, e che può annebbiare la limpidezza dello sguardo e condurre su
praterie dove l’ego scorazza così a lungo da perdersi e piombare in quella
disperazione acida e sudata che prende alla gola.
Irene invece sa questionare le mie assunzioni e soprattutto
sa superare quella mia iniziale freddezza, intrisa di superbia, che con gentilezza
compassata le rimanda espressioni di delusione e stupore, mascherando
apparentemente un senso di lesa maestà che lei riesce sia a cogliere sia a
superare irridendola con quel suo sguardo limpido e luminoso che mi ha rivelato
molto di lei nel giorno in cui le proposi di venire a lavorare con me. E’ in
qualche modo per me una sorta di coscienza esterna, con la quale battaglio
sottilmente, e che mostra una pazienza materna nei miei confronti che mi
stupisce ogni giorno di più. E che non so se e come riesco a ricambiare.
In effetti mi chiedo per quale ragione Irene continui a
lavorare con me, cosa che peraltro considero un dono da meritare, e mi sforzo
di non trovare una risposta per paura di capirlo. Mi dico solo che l‘ambiente
famigliare e la flessibilità costituiranno per lei un vantaggio tale da
superare gli altri limiti che una struttura minuscola e sempre vacillante
inevitabilmente trascina.
Irene non è la sola con la quale condivido ufficio e
risultati. Con noi lavorano anche Simona e Marina. La prima è una giovane
fresca di studi (meno di sei mesi), con poche ambizioni, forse meno talenti, e
molta attitudine all’esecuzione, specie quella che richieda più obbedienza che
partecipazione, e soprattutto nessuna creatività. Marina mi aiuta nell’attività
commerciale.
Quella mattina dunque mi rivolsi ad Irene per chiederle
aiuto nella preparazione della presentazione per il Parioletti. Presentazione
non è la parola giusta. Detesto l’occupazione del tempo del cliente con il
dispiegamento di quelle che il venditore pensa siano le sue forze mentre in
realtà non si tratta se non di specchietti e biglie di vetro che nessuno prende
più per ori e gemme preziose. Invece che mettere tutta la propria mercanzia sul
tavolo, cercando di imbonire l’imprenditore con effetti speciali, tipici del
wannamarketing, preferisco una sobria introduzione che punti a conquistarmi il
diritto di procedere nell’indagine, una sorta di abbozzo di fiducia, un credito
ecco, che mi permette di porre quelle domande sagaci e pungenti delle quali c’è
bisogno perché entrambi, cliente e consulente, capiscano veramente quale sia il
problema e si accordino su come risolverlo, sperando che il chi sia io,
ovviamente.
Quindi, insieme ad Irene cercai di assemblare quella
traccia, ritagliata sulle possibili aspettative del Parioletti, che mi avrebbe
permesso di rispondere alle sei domande inespresse del cliente. Già perché ogni
cliente, sia che ti abbia chiamato sia che sia stato in qualche modo convinto
dalla tua capacità a riceverti, nel momento in cui ti vede si pone
inevitabilmente sei domande alle quali si attende risposta nei primi momenti
dell’incontro.
Perché, comunque sia, qualunque sia la situazione, noi
sottoponiamo ad un giudizio inappellabile la persona che incontriamo, anche se
talvolta questo viene nascosto al nostro conscio da una educazione morbida e
suntuosa. La quale ci fa affermare che dobbiamo sempre cercare di capire gli
altri e dare loro una seconda possibilità. Il che, tra le righe, già esprime la
valutazione che la prima possibilità è stata sprecata.
Non voglio certo negare che lo sforzo di entrare in empatia
con l’interlocutore non sia spesso premiato. Certamente è importante, ed utile,
sporgersi verso l’altro, sospendere il giudizio e mettersi realmente
all’ascolto. (nota: sono perfettamente consapevole di avere messo in fila
nell’ultima frase più luoghi comuni di quanto Moratti non abbia assunto
allenatori all’Inter. Conto sulla capacità di infrangere la barriera della
banalità per addentrarsi nelle caverne del significato).
Importante ed utile sì, ma non deve diventare un alibi.
Perché è questo che spesso capita. Se una relazione non funziona si tende ad
attribuirne la causa all’insensibilità dell’altro, spesso adducendo come
conferma il turbamento della propria sensibilità, che si ritiene accesa e
inesauribile. Di fatto si rivela così solo la presunzione di chi declina la
delicata emotività esposta all’ambiente solo alla prima persona, esponendo alla
condanna degli altri un egoismo aggravato dal fatto di essere ignoto all’ego stesso.
Egoista ignorante.
Per questa ragione chi ha a cuore la costruzione di un amore
–ma sì, chiamiamola così per allinearci a Ivano Fossati- non deve avere paura
di veder “tremare le vene e i polsi” e deve essere in grado di abbandonare i
propri schemi per addentrarsi con coraggio nel territorio dell’interlocutore.
Magistrale la sintesi con cui uno scrittore comasco, morto anni fa, descrisse
l’essenza della comunicazione limitandosi a ribaltare un luogo comune, una di
quelle frasi lise e insipide che si ripetono per riempire i silenzi stirati,
dandole così una forza violenta nuova e squillante: “lo dica pure con parole
mie”. Davvero Pontiggia era letterato capace di spremere le parole per
distillarne il senso celatovi dalla sapienza primitiva.
Ne consegue quindi che diventa irrinunciabile dare risposte
immediate alle sei domande del cliente, così da iniziare quel percorso che,
attraverso l’apertura di un credito di fiducia, potrà condurre al paradiso di
ogni venditore: la tanto agognata, e spesso fraintesa, partnership. Che nel
mondo commerciale di oggi ha assunto il posto di quella che nell’immaginario
medioevale era l’araba fenice: che ci sia ognuno lo dice, dove sia nessun lo
sa.
Ma quali sono queste sei famigerate domande che ogni
cliente, -oso: ogni persona- si
pone nel momento in cui conosce, o è costretto a conoscere, per la prima volta
un nuovo interlocutore?
La prima è: chi sei e perché dovrei darti retta? Ho così
poco tempo, specie oggi, per quale ragione dovrei sprecarlo con te? Dammi una
motivazione valida per non alzarmi da questa sedia subito e congedarti con
disonore! Senza esagerare però, perché non voglio né ascoltare una tua
dettagliata biografia, né tantomeno essere sottoposto ad un noioso ed irritante
auto-elogio. Non voglio avere a che fare con qualcuno che ostenta di essere
superiore a me: e che poi lo sia realmente è tutto da dimostrare. Dimmi dunque
quelle quattro sintetiche cose che mi permettano di capire che sei all’altezza
delle mie aspettative, e mia, e che non sto perdendo tempo.
La seconda è: che cosa sai di me e della mia azienda? Ti sei
preparato oppure stai facendo il giro della tentata vendita “signora quante
mozzarelle le lascio?” come un piazzista col suo camioncino? E non sai neppure
chi siamo, che cosa facciamo o chi sia io, soprattutto chi sia io, perché io mi
amo, io mi stimo, io mi vanto, magari sommessamente, magari inconsciamente, ma
mi vanto e se tu non sai nulla di me, sono guai ragazzo. Dunque, come ti sei
preparato? Hai fatto i compiti a casa? Hai navigato alla ricerca di notizie che
puoi, ora, con delicatezza e senza ostentazione, ricordarmi?
La terza è: chi siete? Perché pensate di poterci essere
utili? Posso anche credere che sei in gamba: tu. Ma la tua azienda? Come può
aiutarmi? E non venirmi a raccontare tutta quella serie di favole infinite in
cui mi dici che perseguite l’eccellenza, che il vostro servizio clienti è
impeccabile, che fate leva sul miglioramento continuo, che soddisfate ogni
richiesta in ogni momento in ogni parte del mondo. Sarà vero ma: primo, me lo
dicono tutti per cui non saprei neanche più distinguervi; secondo è così trito
e liso, che sembra la sbiasciatura di una vecchietta che svende il rosario a
una recita sfatta e indisponente. Non irritarmi: stupiscimi. Trova una frase ad
effetto, che mi faccia sporgere avanti sulla sedia e magari interromperti per
farti una domanda in più. Perché allora ti dimostrerò che mi hai preso, che hai
catturato la mia attenzione.
Quarta domanda: di che cosa vuoi parlarmi oggi e perché? Non
iniziare ad imbonirmi con queste frasi molto americane: sì, ma da serial di
provincia. “Ho una buona notizia per lei”. La migliore sarebbe, se inizi così,
che mi annunci che hai deciso di andartene subito! Sii professionale. Dimmi
quali sono i punti che hai previsto di affrontare oggi. Perché hai previsto
qualcosa. Lo spero almeno. Non vorrai farmi credere che sei venuto da me senza
avere in mente di che cosa mi vuoi parlare? Che ci hai pensato solo mentre alla
reception attendevi innervosito che mi decidessi a farti salire? Che hai fatto
mente locale solo salendo le scale? Sarebbe veramente squalificante per te. E
allora di che cosa vuoi che parliamo? Ma soprattutto perché vuoi che ne
parliamo? Che valore c’è per me nell’affrontare con te questo discorso? Perché
se l’interesse è tutto tuo, mi spiace carissimo, ma quella è la porta. Il tempo
è denaro! E il mio costa e vale più del tuo. Quindi, veloce, essenziale,
efficiente: fammi una agenda motivata e avrai guadagnato qualche punto.
E poi, quinta domanda, quanto mi costerà tutto questo? Dieci
minuti? Un’ora? Tutto il giorno? Devo programmare io. Non amo sorprese. E non
amo furti. Non venirmi a dire “le rubo solo cinque minuti”. Se devi rubare, vai
altrove. Non qui. Io non mi faccio sottrarre tempo. Nemmeno lo regalo (“ha da
regalarmi pochi minuti?”). Quello che posso fare e farlo fruttare (“nella
mezz’ora che le chiedo di investire con me…”). Ecco, questo mi piace. Sarà una
parola un po’ stirata, lisa, ma fa sempre il suo effetto. Perché, come diceva
Nanni Moretti, “le parole sono importanti!”. Sii preciso: se dici mezz’ora che
mezz’ora sia. Se mi interessa, sarò io a chiederti di continuare.
E infine credi che io sia qui a fare da tappezzeria? Che non
conti? Mi vuoi in qualche modo coinvolgere? Che parte avrò io in tutto questo?
Vuoi chiedermi se sono d’accordo con quello che mi proponi o dai per scontato
che la tua abilità e il tuo fascino mi abbiano irretito al punto da non poter
che cadere ai tuoi piedi come i naviganti alle sirene? Chiedimi se voglio
procedere così o se intendo modificare i tuoi piani. Almeno mi rendi felice.
Riportando all’animo questi quesiti, riflettevo su come
impostare i primi istanti davanti a Parioletti con l’aiuto di Irene.
Irene contestava la necessità di dire qualche cosa su di
noi, asserendo che il Magnaga ci aveva già presentati. Accordato. Ciò detto
almeno una frasettina per posizionarsi me la sarei spesa.
E avrei cercato
di mettere in buona luce ciò che avevamo fatto per il Magnaga e per altre
aziende simili.
La discussione ci prese quasi un’ora, tempo ben investito se
mi avesse aiutato a guadagnarmi la fiducia del cliente. Lo avrei sperimentato
il giorno seguente.
La giornata era arrivata al suo mezzo. Ancora calda in
quell’ottobre che si sforzava di assomigliare a maggio. Si poteva stare ancora
in terrazza, il mio ufficio estivo. I due tavoli da picnic, eleganti e sobri,
erano coperti da fogli e appunti: più il segno di aspirazioni che il sintomi di occupazioni. Guardandoli non potei fare a meno di
sentirmi contento. Per quanto fosse assurdo, non ero preoccupato. Tutt’altro.
Come se presagissi qualche cosa, ma senza la follia ottimistica di chi recita a
se stesso quelle frasi idiote con le quali i propagatori di pensiero positivo
invitano ad avvolgersi. Piuttosto con un’ allegria radicata: quella sicurezza
che da bambini ci prendeva quando pensavamo che, per quanto in difficoltà si
fosse, ci sarebbe sempre stato qualcuno –papà, mamma- che ci avrebbe mostrato
la strada. E ci avrebbe tenuto fuori dai guai. Ho sempre desiderato realizzarmi
un quadretto che mostri i gigli dei campi e gli uccelli del cielo, colpito da
quel passo del Vangelo che li addita come esempi di fiducia. Sono sicuro che
alzare lo sguardo e vedere una simile immagine mi restituirebbe al cuore quella
pacatezza che a volte sfugge.
Perché ognuno di noi ha immagini che lo ispirano e gli
muovono dentro qualche cosa che lo rassicura e lo induce ad agire.
Bella mossa: adesso come rispondo?
Trascorsi il pomeriggio immerso in pensieri e scrittura. Amo
molto scrivere e mettere su carta, ancorché ormai virtuale, mi aiuta a
riflettere e a mettere ordine. Faccio uso di strumenti che indirizzano le idee
e le configurano in alberi, mappe, grappoli così da poter essere più facilmente
comprese e spiegate. Sono un visuale e non solo tendo ad esprimermi per
immagini, ma anche a catturare la conoscenza più facilmente se è sotto forma di
disegno o schema.
Man mano che trascorreva il tempo aumentava in me una sorta
di disagio, di insofferenza: si trattava della solita invincibile ansia che mi
tormenta da sempre. Quel senso di incompiutezza, di mancato controllo: insomma
la vocina che insinua che potresti fare di più, meglio, che stai sbagliando
priorità, che dovresti… potresti… Non che non sia importante ed utile chiedersi
sempre se stiamo perdendo tempo o se stiamo lavorando al meglio delle nostre
possibilità, che è cosa doverosa e salutare. Gli è che l’eccesso stroppia. E
spesso è quell’inconscio cattivo in noi, la voce del nemico, che si alza lieve
e ronzante, come una vuvuzela dell’anima, a solleticare turbamenti, angosce
sommesse, giusto per togliere la pace e guastare le relazioni.
Perché quando sei preso da quell’avviluppante senso di
spreco, come se un ladro ti rubasse il tempo avvelenando ogni cosa così da
sciuparti i minuti, allora ti vien dentro la voglia di rivalsa e finisci per
prendertela con chi ti circonda, senza un particolare motivo se non quello di
buttar fuori la pressione, come una valvola di massima che sfoga all’aria.
Quando sentii montare dentro di me questo sentimento, decisi
di smettere e di chiudere lì la giornata. In ufficio era rimasta solo Marina,
ancora alle prese con alcuni messaggi per i clienti. La invitai a rimandare
all’indomani il lavoro e a tornare a casa. Dovetti insistere. Poi, come soleva
proporre e fare Paulista, chiusi il gas e andai via.
Scese improvvisa la sera. In quei giorni in cui il sole non
sa ancora se si è riappropriato del tempo o se l’ora è ancora affidata al
legale, il tramonto sembra più rapido e secco. I colori è vero sono ancora
pastello, o già pastello, e questo stinge i pensieri in una malinconia che
intenerisce il cuore non solo ai naviganti. O forse siamo tutti naviganti,
surfiamo sulla vita per restare a galla.
Prima che il tramonto spegnesse ad uno ad uno i contorni,
sedemmo a cena ancora una volta sul balcone. Sono piacevoli queste cene di
famiglia. La nostra è numerosa. Con giudizio. Siamo in sei.
Quella sera c’eravamo tutti. Una felice coincidenza. Francesco, il più
piccolo, stava in silenzio, concentrato sulle vicende dei fratelli, nell’attesa
di poter intervenire per mettersi in evidenza. Luca, il maggiore, guardava
svogliato il piatto, desiderando probabilmente essere altrove. Eleonora agitava
la tavola spostando freneticamente bottiglie, bicchieri e ciotole, seguendo un
ordine che mi era sconosciuto.
Serena, la figlia numero tre,
rompe il ghiaccio raccontando dello spettacolo teatrale della sera prima: sogno
di una notte di mezza estate.
Un po’ una pizza?
Quanto è durato?
Quattro ore!
Quattro ore! Ma: quattro ore o
tipo quattro ore?
Quattro oreI!
Ah beh. Quattro ore! L
E non c’era scenografia. Tipo un cartello luminoso con le lettere che
si limitavano a dire Foresta, Spiaggia… e basta. E poi recitavano pesante,
gonfio… Insomma una palla….
Lasciamo stare il teatro allora.
La discussione scivola sulla serata di Luca.
Come è andata la cena a casa Brambilla? E a proposito: ma quanti sono,
quattro fratelli?
E come si chiama quello che ha la tua età?
Quella che ha la mia età intendi.
Sì. No, quello. Non quella.
Quello che ha l’età di Eleonora allora.
Sì.
L’età di Eleonora. Appunto.
Ah. E tu conosci lei o lui.
Tutti e due.
Ah.
Incredibile vero? Quanti incontri si possano fare.
Hanno cambiato casa, l’altra era troppo grande! Che lavoro fa adesso il
papà?
Fermi tutti. Basta domande. Mi faccio mandare un fax con stato di
famiglia, albero genealogico, cv, e piantina con metratura della nuova casa.
Chiusa la vicenda della serata di
Luca, passiamo ai commenti sul cibo.
Il pollo è delizioso così croccante. Odio il pollo pallido. Mia madre
era capace di cuocere un pollo lesso mentre lo faceva arrosto. Laura prova
ad intervenire per indirizzare la discussione raccontando storie note del suo
passato prima di noi.
La cena scorre veloce. Il cursore
ha quasi raggiunto la fine file.
Non hai ancora finito il pane? Hai il ritmo di un maratoneta! Noi siamo
scattisti.
Il nipotino ieri aveva la febbre. Lo so, lo hai urlato al telefono
questa mattina. Anche il papà urla al telefono, specie quando dice “io ti
senti, tu mi senti?”. Lui no, ma tutto il condominio sì. E’ come il nonno: più
è distante quello che chiama, più lui parla a voce alta. Ma glielo avete
spiegato che non funziona così?
Poi la compagnia si sciolse,
ognuno intento a trovare la gioia dentro la propria serata. E io, dopo aver
aiutato Laura a sparecchiare, me ne restai ancora un po’ in terrazza, in
poltrona, a leggere e pensare.
Laura siede accanto a me. Mi
sorride. Tace. I miei pensieri saturano lo spazio che ci unisce. Riprende a
leggere. Io guardo fuori la sera e le luci delle case. E prima di spegnere
l’attenzione lancio la mia sfida: “Parioletti, a noi due!”
Quarto capitolo
“E’ stato un buon incontro: mi
aspetto di incontrarla per discutere la sua proposta allora”.
Una ottima fine dunque. Vale la
pena raccontare dall’inizio.
Racconta il Manzoni che il principe
di Condé non fece fatica a dormire la notte prima della battaglia di Rocroi.
Neppure io. E senza uso di sostanze chimiche. Crollo. Non sento la tensione
prepartita. O forse la sento così tanto da svenire.
E poi la mattina corro. D’accordo,
come tutti oggi nel proprio lavoro. Beh, diciamo quasi tutti. Specie i liberi
professionisti. Perché tutti a dire che siamo in fuga dalle tasse. Che non è
vero, Per onestà personale prima che professionale. Ma nessuno a dire che
inseguiamo il lavoro che non è mai stabile né sicuro. C’è che uno sogna la
carriera di consulente per iniziare a vivere come ha sempre sognato. Non per i
soldi, non solo almeno, quanto per l’uso del tempo: immagini che finalmente
potrai iniziare a giocare a golf, seguire le partite dell’Inter, magari anche
quelle dell’Armani e così via. Poi ti ritrovi a lavorare con la famosa formula
24/7: vale a dire senza soluzione di continuità. E per tirare a campare. Chi è
causa del suo mal….
Quindi corro. Ho iniziato da
qualche anno e mi diverto. Anche se da fuori può sembrare follia. Come la
pensavo io prima di iniziare. In realtà mentre sei lì che ti poni sempre nuovi
obiettivi, nuove sfide, nuovi record, come tutti gli uomini, mentre sei lì che
conti i passi, guardi il cardiofrequenzimetro, visualizzi la falcata, ascolti
nell’iPod le canzoni che spingono, riesci a scollegarti da tutto, a entrare in
una dimensione che potrei definire fiabesca, infantile. Quando correvi per il
gusto di farlo, per scaricare energie, perché ti andava di farlo. E tutto
sembra andare a posto, perdere gli spigoli.
Ho persino coniato la mia
personale versione della ben nota pubblicità Mastercard: scarpe Mizuno a
risposta morbida 140 € con Mastercard; tutina da uomo ragno Nike 88 € con
Mastercard; iPod nano 99 € con Mastercard; Gonna fly now 2,99 € con Mastercard:
correre per la salita del centro commerciale credendoti Rocky non ha prezzo.
Ci si diverte con poco. Siamo
spiriti semplici.
Così, tornato a casa dopo la corsa
mattutina, passato in fretta –ma non troppo: siamo uomini in fin dei conti-
sotto la doccia, rivestito di tutto punto con divisa da cliente, controllato
che nella valigetta ci fosse tutto quello che doveva esserci, diedi uno sguardo
fiducioso all’immagine della Madonna che sorveglia camera nostra, e…
Parioletti!
La visione del palazzo da fuori
era “impressive”: parlava di solidità, ma anche rigidità. Quasi uno di quei
torrioni che incutono timore su Regent Street più che i flessuosi grattacieli
che costeggiano il lago sul Magnificent Mile di Chicago.
Entrai. Mi fecero accomodare. E
attendere. Ho sempre l’impressione che queste attese siano studiate. Per
caricare, per esaminare, per vedere. Mi immagino che ci sia una videocamera
nelle sale d’attesa, o un finto specchio, così che possano studiarti prima di
parlarti di persona: vedere se ti metti le dita nel naso, se sei nervoso, se
inganni il tempo. Sarà una mia fissazione.
Poi d’un tratto si spalanca la
porta e lui entra. Non è solo. Con lui una ragazza, appena sopra i trenta
direi, e un uomo nostro coetaneo. Non è più alto di me, un po’ squadrato,
capello morbido e appena lungo. Occhi azzurri. Come l’avevo visto nelle foto
scovate sul web. Lo saluto con un sorriso. Ringrazio. Accenna. Mi presenta in
due collaboratori: Anna Lucchini, la sua assistente personale e Marco Franchi,
il direttore operativo, che in una azienda come questa vuol dire tutto e
niente. Si fa sul serio allora.
Ci sediamo. Si inizia a ballare.
Sorrido. Mi sporgo verso di loro. Sembrano ritrarsi. Non è un segno
incoraggiante. Guardo fisso negli occhi Parioletti. È lui il capo. Gli va
tributato rispetto.
“Vorrei
innanzi tutto ringraziarla di avermi contattato. So che la sua azienda è leader
in Italia, collabora con le principali case di moda, come Fresco &
Torrana, e che si sta espandendo
in Europa grazie anche alle recenti acquisizioni. Il dr. Magnaga, che ha
favorito questo incontro, mi ha fatto qualche cenno ai vostri punti di eccellenza,
che vorrei però capire con più dettaglio.
Il mio
obiettivo oggi è capire quali sono gli obiettivi al raggiungimento dei quali
posso dare un contributo. Per questo vorrei prima capire che cosa sa di me,
così da poter brevemente illustrare i punti essenziali che le permetteranno di
farsi una idea della mia struttura. Poi vorrei capire in quale modo pensa possa
esserle utile così che possiamo allineare le aspettative. Infine farle qualche
domanda per poter studiare meglio la soluzione. C’è qualcosa d’altro o di
diverso che intendeva per poter far fruttare ancora meglio questa ora che
abbiamo concordato di investire insieme?”.
“Magnaga mi ha detto che lei è stato capace
di capire quale fosse il suo problema e di risolverlo in tempi rapidi. Vorrei
facesse la stessa cosa con noi”.
“E’ quello che
spero di fare”.
“Spera o è sicuro?”
Starà verificando la mia sobrietà oppure preferirebbe vedere
un consulente aggressivo? So che qualche consulente sceglie la strada
dell’aggressività per ottenere fiducia. Non è la mia scelta. Non so se più per
rispetto del cliente o se per incapacità personale. Propendo più per la seconda
ipotesi. Soffro di overdose di onestà intellettuale che sfocia spesso in una
presunta insicurezza, il confine tra
la sobria umiltà e la stinta debolezza. Devo dare una risposta vincente,
che mi permetta al contempo di affermare il mio prestigio e non apparire
arrogante.
“Sicuramente
il dr. Magnaga le avrà anticipato quello che è il nostro approccio che sintetizziamo
con La forza delle soluzioni senza l’arroganza del solutore. Quello che le
posso garantire è il mio, il nostro massimo impegno. Ci sentiamo impegnati a
raggiungere i risultati che lei desidera. Devo essere comunque molto sincero:
non abbiamo poteri magici e non sempre gli obiettivi auspicati sono
raggiungibili in modo vantaggioso, intendo dire con un sufficiente ritorno
sull’investimento. Per questo dico spero. Per lo meno adesso prima di conoscere
il suo problema. Se le garantissi di poterlo risolvere prima ancora di
conoscerlo farei del wannamarketing”.
Attendo. Sembra rilassarsi.
Abbozza un sorriso. E’ andata. Proseguo.
“Preferisce
spiegarmi subito il suo problema o desidera avere qualche informazione in più
su di me e sul mio studio?”
Meglio ridare la palla a lui per
fargli capire che per me il suo tempo è importante e non voglio farglielo
spendere, tanto meno rubarglielo.
“So già a sufficienza di lei. Conosco
Magnaga da anni e se dice che posso fidarmi, mi fido. Semmai mi racconterà più
avanti. Il nostro problema sono i margini. I nostri clienti chiedono sempre di
più e non riusciamo a ottenere quello che vorremmo dai fornitori”.
Non aggiunge altro. Uomo di poche
parole. Dà molto per scontato. Se si comporta così con i suoi collaboratori
potrebbe essere lui la prima causa del problema. E gli altri, non hanno ancora
aperto bocca. Chiaro chi comanda.
“Come le
dicevo quello che so di HAL è che organizzate svariate tipologie di eventi
specialmente per promuovere il marchio e la notorietà dei vostri clienti. Può
spiegarmi meglio come è strutturato il vostro processo di vendita e di
erogazione dei servizi così che possiamo iniziare a capire dove nasce il
problema?”
“Processo di vendita. Che cosa intende? Noi
andiamo dai clienti e chiudiamo i contratti. Poi ci lavoriamo i fornitori.
Tutto qui. E non otteniamo i margini che vorrei. Può fare qualche cosa?”
Certo che posso! E mi sembra anche
di capire dove e come. Il punto è come dirtelo, come fartici arrivare da solo.
Perché la prima cosa che mi viene in mente di dire è “togliti da parte e fammi
lavorare, dato che siete così disorganizzati da non avere neanche uno schema,
non dico una strategia che ho capito non sai neanche da dove si comincia a
scriverla, ma un banale 4-4-2: quattro operativi, quattro di supporto e due
venditori”. D’accordo, vediamo di
procedere con calma
“Capisco bene
quello che dice. Certamente posso proporre delle soluzioni che le permettano di
incrementare i margini. Proprio per questo è importante capire quali siano le
priorità. In un business come il suo il margine è dato da alcuni fattori
principali: sicuramente l’investimento che riesce a ottenere dal cliente. Si
può fare di più in quest’area? Come siete posizionati? Sia a livello di prezzo
di mercato sia come percezione da parte dei clienti. I servizi che offrite vi
permettono di differenziarvi? Poi, come negoziate con i fornitori? Si può
ottenere di più o riuscite già a limare tutto quello che si può? E sui termini
di incasso e pagamento? Anche il flusso di cassa e gli oneri finanziari sono
voci che incidono sul margine. Da ultimo l’efficienza e la sinergia delle
risorse: ridurre i tempi di lavorazione e quindi di fatturazione, ridurre gli
straordinari, sono tutte voci importanti che hanno un impatto non indifferente
sulla riga del profitto. Quale di questi fattori secondo la sua esperienza
incide di più? Da quale sarebbe bene cominciare?”
Ecco, volevi fare il duro? Rispondimi un po’ a questa domanda! E’ qui
che cadono spesso gli imprenditori direttivi come Parioletti. Grande esperienza,
direi pratica, e poco approccio sistematico: finché va bene, una pacchia.
Quando cominciano a sentire la concorrenza, non sanno da che parte incominciare
perché non hanno una visione chiara di ciò che fanno. Ci vuole un’arte sottile
per arrivare a metterli a nudo. Perché non puoi essere diretto. Almeno non è il
mio stile. Preferisco la maieutica alla arroganza. Ricordo quella volta che un
imprenditore voleva scaricare sulla propria forza vendita la sua incapacità di
definire strategie commerciali, pretendendo che fossero area manager junior a
spiegargli come crescere in mercati ostici, riuscii a trattenermi e a dirgli
“guardi, c’è sicuramente un problema di comunicazione: i suoi uomini non
riescono ad applicare la sua strategia perché non l’hanno capita e non l’hanno
fatta propria”. Così va il mondo. Così vanno le cose qui in HAL per cui non mi
stupisco affatto della reazione di Parioletti. Si appoggia allo schienale della
sedia, Respira profondo. Guarda le persone di fianco a lui e poi:
“è una domanda per voi signori, specie per
lei Franchi, che cosa mi dice a riguardo?”
Franchi lo guarda sorpreso. Temeva
di essere chiamato in causa e per questo si era quasi nascosto dentro la sua
giacca. Occhi a terra. Li alza come richiamato a vita da un padrone infastidito.
Si sistema gli occhiali.
“Un peccato non sia con noi Caniato, il
responsabile vendite, dottore, lei non lo conosce. Non ancora. Avrebbe potuto
dirci molto su come contattano i clienti. Quello che posso dire io è che
facciamo del nostro meglio per tirare fuori dalle informazioni che ci passano i
dati utili a strizzare i fornitori e organizzare eventi di gran classe. Quelli,
per intenderci, che ci hanno reso così noti e che hanno fatto di HAL il leader
di mercato”.
Silenzio. Sta sparando alla
schiena al collega con classe, devo ammetterlo, e difendendo il proprio lavoro
come se Parioletti l’avesse messo in dubbio. Forse non qui, non ora, ma credo
che il capo gli abbia fatto presente che si aspetta di più da lui. Poiché il
silenzio si protrae più di quei secondi necessari a raccogliere le idee, decido
di intervenire.
“Quindi, se
capisco bene, una prima area che potrebbe essere presa in esame è quella del
passaggio di consegne, che può essere ottimizzata: in questo modo non solo sarà
possibile produrre quegli eventi di successo che già vi caratterizzano, ma
anche rendere più facile la negoziazione con i fornitori per aumentare i
margini. Siete d’accordo?”.
“Decisamente! E’ proprio così!”
Franchi non vedeva l’ora di
spostare l’attenzione da sé.
“Mi sta dicendo che non avete ancora risolto
il problema della collaborazione?”
A Parioletti non sfugge nulla ed è
molto diretto! Il collaboratore nicchia. Devo intervenire per tirarlo fuori dai
guai senza ostacolare Parioletti.
“E’ un
problema comune a molte aziende. Magnaga le avrà sicuramente raccontato che
anche da loro era presente questo ostacolo. Perché io possa capire meglio
vorrei farle una domanda dr. Franchi: chi è che prepara la descrizione
dell’evento da sottoporre al cliente? Direttamente la vendita o è il suo team
che, attivato da chi sta gestendo la proposta, raccoglie tutti i dati per
elaborare la proposta? Chiedo questo perché immagino che la descrizione che
dovete presentare, corredata da una proposta di investimento, debba essere
molto dettagliata e questo implica che abbiate già preso contatto con i
potenziali fornitori.”
Taccio e guardo. Parioletti sembra
divertito. Buon segno. La sua assistente, che fino ad ora ha mantenuto una
espressione rigida, finendo per assomigliare a quelle statue viventi che
sfidano i passanti per racimolare quattro lire, sorride. Al capo ovviamente.
Non riesco a capire se si tratta di sarcasmo per la difficile posizione di
Franchi o di soddisfazione per la piega che ha preso il colloquio. Prima che
Franchi risponda Parioletti interviene:
“Ha già lavorato in questo settore dr.
Fossati? Mi sembra che la sappia lunga su come gestiamo il business! Non starà
mica assistendo anche qualche nostro concorrente?”.
Come prima cosa noto quella parola
che mi rassicura: “anche”. Sta parlando come se stessi già lavorando per loro.
Altro buon segno. Poi mi occupo di rassicurarlo. Lo guardo negli occhi e
sorrido:
“Non lavoro
mai contemporaneamente per aziende concorrenti. Sebbene la nostra lealtà ci
impedisca di condividere informazioni riservate, preferisco evitare anche il
rischio di inquinamenti involontari. Ho lavorato in passato per un gruppo
internazionale, BTE, e quindi ho sviluppato una certa conoscenza del settore”.
“Vedo. Mi sembra che si muova bene. Dunque
che cosa suggerirebbe di fare a questo punto?”.
Ecco il punto magico. La chiave di volta. Ma anche il
rischio maggiore. Non devo cadere nel tranello che mi sta tendendo. Se fornisco
subito una soluzione, sono perso. Sicuramente non sarà quello che aveva in
mente lui, e non ho ancora conquistato sufficiente autorevolezza per poterlo
contraddire. Ancora una volta mi
sta mettendo alla prova.
“Credo che
abbiamo individuato solo uno dei punti che potrebbero produrre il calo dei
margini che lei ha evidenziato. Sarebbe ingenuo da parte mia pretendere che con
solo poche domande sono stato in grado di scoprire un problema che, sono
sicuro, le era già ben presente. Quello che posso suggerire è una direzione da
prendere insieme. Esaminerei con più dettaglio l’intero processo di produzione di
margine, dal momento della individuazione dei potenziali clienti fino alla
rendicontazione finale che permette di fatturare al cliente. Possiamo anche
lasciare da parte per il momento la fase di prospezione, che per definizione è
migliorabile ma per esperienza non ha grande impatto sui margini, per iniziare
dal primo contatto con il potenziale cliente. Questo ci permetterà di
individuare tutti i fattori critici e, tra di essi, quello che ha priorità
principale e, probabilmente, genera tutti gli altri. Che ne dice, dr.
Parioletti, le sembra che questo modo di procedere sia in linea con le sue
aspettative?”.
Ecco, forse le aspettative non
c’entrano molto, ma è stata la prima parola che mi è venuta in mente per
concludere il discorso. Il mio obiettivo è portare a casa un primo sì: il primo
passo fatto insieme.
“Se lei ritiene che non ci sia una strada
più breve per risolvere il problema!”
“Potremmo fare
in questo modo: portare avanti contemporaneamente due progetti su due piani
diversi. A livello strategico analizzare il processo e individuare le priorità
di miglioramento. A livello tattico intervenire su un’area che permette di
ridurre le spese con rapidità, producendo in media un 2-3% di margini in più.
Intendo dire un percorso di formazione, breve e molto concreto, per facilitare
la negoziazione con i fornitori, prima e dopo la sigla dell’ordine e dopo la
conclusione dell’evento, per ridurre i costi. In questo modo possiamo da subito
produrre un risultato positivo, senza perdere di vista l’intervento più radicale
che permetterà di risolvere il problema alla radice. Le sembra che questa
soluzione la soddisfi?”
Sempre chiudere con una domanda.
Mai dare l’impressione di volersi imporre. Parioletti mi guarda, guarda i suoi.
La donna sorride sempre, ho quasi l’impressione che sia lei a tirare i fili.
Franchi annuisce, rischiando forse qualche cosa. Poi, forse per riscattarsi
agli occhi del capo, si sporge verso di me e mi chiede a bruciapelo.
“Quanto
costa?”
Eccola, la più stupida e frequente
delle domande! Lecita, si intende, ma anche banale, insipida. E la difesa del
debole. Che non vuole rischiare. Beh, magari io non sono stato in grado di
fargli capire il valore di quello che sto proponendo. Cerchiamo di rimediare
“Capisco la
sua domanda. E’ importante dare una risposta chiara e profonda. Immagino che
anche voi, come molte aziende oggi, non prendiate più in esame esborsi di
denaro che siano costi: considerato solo investimenti. Per questo le posso
parlare in termini di ritorno sull’investimento. Come dicevo, l’esperienza mi
dice che, migliorando le capacità di negoziare con i fornitori, è possibile in
breve tempo aumentare i margini attuali di 2 o 3 punti percentuali. Non che i
nostri clienti non abbiano ottenuto risultati anche migliori, siamo arrivati ad
una punta del 7%. Non voglio però millantare per cui preferisco rimanere
conservativo. Se i vostri margini attuali superano i 40.000 € all’anno, posso
assicurare che l’investimento che vi chiederò di fare per questo specifico
percorso è ampiamente superato dai guadagni che otterrete. Per quello che
riguarda l’analisi del processo aziendale, non posso quantificare ROI e Pay
Back Time. Per questa ragione sono solito proporre un percorso per step che
permetta sia di controllare l’investimento, sia di produrre di volta in volta
risultati concreti, assicurando così al committente la possibilità di
interrompere la collaborazione senza lasciare a metà strada l’analisi, e senza
avere così sprecato risorse. Che ne dice?”
Franchi sui tira indietro. Ha
lanciato il sasso. Ma non sarà lui a raccoglierlo da terra. Guarda Parioletti
che annuisce.
“Mi ha convinto. Allora adesso che cosa
facciamo?”.
Pratico ed essenziale. Decisamente
un direttivo puro. Necesse rispondere nel medesimo modo:
“Partiamo. Per
farlo ci restano due passaggi da esaurire al più presto. Primo: le preparo una
proposta di investimento, così che possiamo accordarci sul reciproco impegno.
Secondo: fissiamo il calendario per la fase iniziale di analisi. Se è d’accordo
vengo da lei lunedì per
presentarle la mia offerta”.
“Se non mi costa troppo, si intende”.
Non è che lo pensi veramente, è
che deve far vedere che il controllo ce l’ha lui, e che la decisione la prende
lui. Non vuole sentirsi forzare. Corretto e comprensibili visto lo stile. Per
questo sorrido, lo guardo fisso negli occhi e rispondo:
“Certamente.
Sono sicuro che la proposta che le porterò la prossima settimana sarà in linea
con quanto mi ha fatto notare fino a qui e con ciò che si aspetta per gestire
un progetto come questo”.
Taccio, lascio che il silenzio si
spanda tra di noi per permettere a chi vuole di prendere la parola e aggiungere
quello che eventualmente manca. Non lo fa nessuno. Immaginavo.
“E’ stato un buon incontro: mi aspetto di
incontrarla per discutere la sua proposta allora”,
dice alla fine Parioletti. E’ il
segnale del rompete le righe. Si alzano tutti. Anch’io. Gli stingo forte la
mano, sempre sorridendo.
Sono fuori. Sono riuscito a
trattenermi fino ad ora da lanciare un grido di gioia che spacchi il cielo, che
solchi questo azzurro ottombrino che stinge di fresco il mio futuro prossimo.
Una grande occasione. Non posso sciuparla.
Poco più di un anno fa. Chiusi i
miei pensieri nell’abitacolo della mia auto e mi precipitai in ufficio per
preparare l’offerta. Se avessi saputo.
Se avessi capito che mi avrebbe portato
qui, oggi, adesso…..
L’avrei fatto ugualmente.
Capitolo quinto
Arrivai in ufficio intorno all’ora
di pranzo. Che è un’ora affascinante per segnare un nuovo corso. Ci si può
giocare. Mezzogiorno di tuono. Meglio: mezzogiorno di poco. Un poco ancora per
trovare la strada giusta. Salutai Irene; Simona e Marina che attendevano con
ansia il mio resoconto, avendo chiaro anche loro, Irene in modo più acuto, che
il futuro della nostra compagnia era in buona parte connesso al successo dell’incontro
della mattina.
Mi gustai il silenzio che
precedette la mia affermazione di ottimismo. Perché in quei silenzi c’è spesso
il senso delle cose. Non dico della vita, perché sarei più imputabile di
presunzione che di ottimismo, e passerei per un millantatore invece che per un
filosofo facilone. Ma il senso delle cose sì, perché dilatare quell’istante nel
quale le speranze possono implodere generando disperazione o, scoppiettando,
trasmutarsi in certezze, quell’istante merita di essere onorato e soppesato. E’
intriso di una forza speciale che dovrebbe condurci nelle profondità di noi
stessi, per scoprire fino a dove realmente arriva la nostra fiducia in Dio, o
comunque nel fatto che esista un senso, un destino positivo, capace di guidare
i fatti così da farci beneficiare comunque, qualunque cosa capiti. In effetti,
se la nostra fede fosse al di sopra del minimo sindacale, di quella misura
scarsa e limitata che ci consente solo di affermare una blanda categoria dello
spirito; se la nostra fede fosse davvero salda e cieca, sovra razionale, quindi
non emotiva ed effimera, ma incrollabile perché costruita sopra e oltre la
ragione; se la nostra fede fosse come quella della cananea più che quella di
Giobbe, allora realmente sapremmo cogliere in ogni situazione il bene che ci
sta nascosto, magari in profondità come un tesoro su un isola caraibica. E
quindi la nostra domanda non sarebbe più “perché a me?”, interrogativo che
lungi da chiedere una risposta, afferma una minaccia, ma “che cosa ci devo
leggere?”. Per fortuna Dio, o chi per esso, conoscendo le nostre debolezze
agisce in due modi: spesso ci mette in condizioni di ringraziare, lasciandoci
accedere a sentiero apparentemente più desiderabile del bivio; altrimenti ci
fornisce, direttamente o per interposta persona, suggerimenti su come leggere
il messaggio cifrato.
Gustai il silenzio e poi mi
espressi così: “direi che abbiamo ottime possibilità. Ho fatto una buona
impressione. Devo preparare una offerta per lunedì. Ce la possiamo fare”.
Ricevetti in cambio rumori e
parole di soddisfazione e di elogio, che sapevo di meritare e che mi fecero
piacere. Anche i capi vanno elogiati qualche volta. Anche i capi hanno bisogno
di sentirsi riconoscere il merito. Di aver fatto qualche cosa bene. Io ne ho
bisogno. Stop.
Chiesi aiuto ad Irene: sicuramente
amo scrivere una proposta personalizzandola così da far capire, anche nel
testo, che è mia intenzione mantenere la promessa di essere vicino al cliente e
di essere… committed…
Aperta parentesi. Ora è necessario
una precisazione: detesto usare termini non italiani quando non ce ne è
bisogno. Fa cafone, come il diamante secondo Audrey Hepburn in Colazione da
Tiffany. Ma è anche vero che c’è una ricchezza nelle lingue che sarebbe da
sciocchi sprecare. Ora committment, e i suoi derivati, è una di quelle parole
che non riesco a tradurre senza tradire, senza asciugarla non dal grasso che la
rende esagerata, ma dalla linfa che le dà vita. Perché commitment è molto più
che impegno, è dedizione anche fisica, avvolgente, intensa. Uno sforzo senza
fine, senza limiti, senza riserve.
E’ questo che dice la nostra
promessa: siamo… commited ai vostri obiettivi. Chiusa parentesi.
Torniamo a noi. Dicevo che mi
piace personalizzare le proposte, ma senza farmi male. Se esistono delle parti
ripetitive, inutile inventare l’acqua calda ogni volta. Taglia e incolla. Con
giudizio.
Chiesi quindi ad Irene da quale
altra proposta potevamo partire per redigere l’offerta che avrebbe potuto farci
veleggiare verso nuovi lidi.
E insieme controllammo l’indice.
“Dunque, rivediamo l’impostazione
della proposta. Iniziamo dall’executive summary. Una pagina massimo, meglio
mezza, con un riassunto chiaro e affascinante per il Parioletti. Anche se penso
che, visto il tipo, se la leggerà tutta. Meglio però prevedere la possibilità
che legga solo questa prima pagina. Poi la descrizione della situazione
attuale, facendo spesso riferimento a frasi e fatti citati dal cliente. Come
sempre ho preso appunti e ho segnalato i punti chiave che mi hanno
sottolineato. Terza parte: dove vogliamo arrivare. Una descrizione breve e
colorita del punto di approdo, la visione che vogliamo rimanga loro in mente.
Questo è l’elemento determinante: se riusciamo a far vedere loro dove possiamo
condurli siamo a tre quarti della strada. Quindi il percorso: le tappe che
intendiamo seguire, ben suddivise nelle varie fasi che corrispondo a differenti
servizi che intendiamo proporre loro. Per ogni fase indicare il risultato
concreto, così gli facciamo capire che non sono obbligati ad arrivare fino in
fondo prima di raggiungere un obiettivo. Se li vincoli ad un progetto troppo
ampio si spaventano e non firmano. Bisogna tranquillizzarli: possiamo procedere
per gradi anche per migliorare la reciproca conoscenza e possono sganciarsi in
qualunque momento avendo un prodotto intermedio valido e utile. Infine la parte
relativa all’investimento. Per adesso quotiamo solo le prime due fasi e
specifichiamo che per le altre è necessario prima raccogliere informazioni che
scaturiranno dalle prime analisi. Così è sicuro che non stiamo cercando di
attaccarci a loro come delle sanguisughe per prosciugarli. Tra l’altro non è
nel nostro stile. Ma loro non lo sanno ancora. Vuoi provare a stenderla tu e
poi la rivediamo insieme o preferisci che prima esaminiamo gli appunti?”.
Irene mi guardò con pazienza.
Scosse la testa.
“So bene come prendi nota: ce la
posso fare da sola. Anche questa volta”.
Ahi, un pizzico di fastidio nella
sua voce: forse ho punto il suo amor proprio. Non volevo. Mi capita.
“Certo. Non avevo il minimo
dubbio”, provai ad aggiungere. “adesso però andate tutte a pranzo, ci metti
mano dopo, quando rientri”.
Mi guardò come per sottolineare
nuovamente la sua completa autonomia. Questa volta voltai veloce il viso per
non dover ribattere.
Nella mia pausa pranzo, dopo una frugale
insalata –l’insalata è sempre frugale, è ricca solo negli States dove la parola
“salade” tende ad indicare tutti quei cibi gustosi e grassi che si lasciano
accompagnare da tracce quasi inavvertibili di verdure giusto per scaricare i
sensi di colpa degli avventori- e un caffè forte, mi concessi una pipa mentre
riposavo la mia mentre saltabeccando dai blog e dalle pagine più divertenti
della rete. Anche istruttive si intende, come marketing
low cost e venditareferenziata,
o Alessandra Colucci. Decisi
di concedermi una deviazione più culturale con Costanza
Miriano oltre che ovviamente il sito ufficiale di prof 2.0 e
della Prof. Milani. Poi passai alla posta, in quella
transizione che collega lo svago intelligente al lavoro meno impegnativo.
Tornarono le ragazze, scambiammo
parole veloci e ilari, per facilitare il passaggio al silenzio professionale.
Riuscii a troncare senza sbavature la conversazione e mi rifugiai nel mio
ufficio, mentre Irene mi ricordava che si sarebbe messa subito al lavoro per il
Parioletti.
Meno di tre ore dopo la proposta
era completata. Perfetta. Guardai
fuori sollevando lo sguardo dal mio Mac. Lo spicchio di cielo che riuscivo a
vedere era terso e uniforme, anche se i bordi slabbrati iniziavano a cambiare
colore. Pensai alla settimana che stava finendo e alla prossima, che avrebbe
potuto portarmi una serenità più liscia. Lunedì avrei incontrato prima il
cliente che avevo contattato via mail e poi nel pomeriggio avrei presentato la
proposta a Parioletti. Una giornata che poteva cambiare il corso delle cose
rimettendo in rotta la nostra barca. Dovevo fare lo sforzo di staccarmi dal
lavoro per tutto il fine settimana, per non rovesciare sulla mia famiglia
tensioni che non meritavano.
Ringraziai Irene per il lavoro, mi
sorrise in risposta, poi scambiai le classiche parole del venerdì sera con
tutte e tre le ragazze, facendo il punto della situazione. Marina mi disse che
aspettava lunedì la risposta da un altro potenziale cliente, un contatto vicino
a Roma, un’azienda alimentare che aveva contattato partendo da un articolo su
un settimana economico. Mi chiese le disponibilità per poter organizzare un
viaggio, mettendo insieme anche un altro potenziale progetto con una azienda
che produceva macchine per la perforazione di tunnel. Guardammo insieme il
calendario e ipotizzammo un paio di date più probabili.
Poi, insieme, le tre ragazze se ne
andarono lasciandomi solo ad aspettare il fine settimana.
La cena fu animata come sempre.
Quando restammo soli Laura ed io le chiesi finalmente della sua giornata. Oltre
a darmi una mano con l’amministrazione e ad andare in aula qualche volta, Laura
gestisce con una socia, Rossella, alcuni asili nido in franchising.
“Oggi ho avuto la mia solita dose
di pazzie genitoriali. Ho dovuto rimandare a casa un bambino che aveva la
febbre. E sai che cosa mi ha detto il padre? Che l’aveva visto un po’ spento,
ma che aveva insistito tanto per andare all’asilo che aveva dovuto
accontentarlo. Il bambino ha diciotto mesi. Parla a fatica!”
“Si inventano di tutto ormai. E
come ha reagito il papà?”
“Si è un po’ seccato sulle prime.
Non sapeva dove lasciarlo, questo era il problema. Ma noi non possiamo proprio
tenere bambini con la febbre. Per rispetto per lui e per gli altri bambini del
nido. Poi mi ha scritto un’altra tizia: voleva informazioni sugli orari e sul
sistema pedagogico adottato. Ma lo sai il bello? Non ha ancora un bambino!”
“E quando nasce?”
“Non è neanche incinta! Si stava
informando. Capisci? Programmano tutto. Prima ancora di pensare ad un figlio si
informa sugli asili nido della zona”.
“Capisco la previsione. Questa
però mi sembra un po’ eccessiva”.
“Ce ne sono a manciate di
situazioni folli come questa. Ti ricordi di quella signora quarantenne che
finalmente era riuscita ad avere un figlio? Mi disse che se lo voleva coccolare
proprio questo bambino che aveva aspettato così a lungo. Che voleva goderselo.
E che avrebbe fatto delle rinunce sul lavoro, nonostante ricoprisse un ruolo di
grande rilievo. Venne da me due settimane dopo aver partorito. Era appena dopo
Pasqua. Mi chiese da che età prendevamo i bambini. Quando le risposi che prima
dei due mesi era difficile, mi chiese subito se potevamo fare una eccezione. E
a raffica chiese gli orari perché pensava di lasciarcelo dalle otto del mattino
alle sei di sera. E fortuna che voleva stare con lui! Ho fatto molta fatica a
non dirle in faccia quello che pensavo”.
“L’avete preso?”
“Si capisce! E’ con noi dai primi
di maggio. E’ rimasto tutto luglio. Ci manca che chiami mamma la Maria! E’
stato più con lei che con la madre. Che poi è apprensiva come poche. E quanto
latte ha mangiato. E la cacca. E il riposino. Ha Non ha ancora sette mesi.
Quando andrà a scuola, non vorrei essere nei panni degli insegnanti”.
“E’ quel genere di genitore che si
lascia comandare dai figli”
“Già come quella che ha il figlio
di poco più di due anni e che gli lascia gestire la casa. Mangiano quando lui
ha fame. Guardano insieme la televisione e quando lui ha sonno, ordina di
spegnere e vanno tutti a letto. Insieme. Nel lettone”.
“Poi sono quelli che ti ritrovi in
azienda trent’anni dopo e che distruggono ogni forma di collaborazione”.
Restammo in silenzio per un po’ a
guardare la notte che scendeva lieve.
“Domattina c’è la riunione a
scuola” riprese Laura.
“E’ un’occasione per incontrare un
po’ di amici”, sospirai. Mi sentivo così stanco che il pensiero dell’incontro
mi pesava addosso come una lastra di piombo.
“E poi c’è sempre da imparare
dalla Mariolina. E’ proprio brava”.
“Qual è il tema della relazione?”
“La relazione tra genitori e figli
adolescenti”.
“Eh sì, c’è sempre da
approfondire. A proposito…”.
Iniziammo a parlare dei figli
mentre caricavamo la lavastoviglie. Poi finalmente il letto dove vedere un
telefilm. Laura si addormenta sempre prima della fine così mi tocca raccontarle
chi era l’assassino e come l’hanno scoperto. Qualche volta però si sveglia
prima della conclusione e sembra che non abbia perso neppure una inquadratura:
questo significa che è molto brava a cogliere le trame. O che gli sceneggiatori
scrivono storie banali e scontate.
Capitolo sesto
Lunedì mattina. In macchina. Sulla
strada per la Pedretti, prestigiosa azienda di rubinetterie nel comparto di
Borgomanero. Sono tutte là le rubinetterie. In uno di quei paesini c’è anche il
museo del rubinetto. Devo incontrare il signor Giorgio Pedretti, terza
generazione di imprenditori. Me lo
sono sognato questa notte.
Non mi capita spesso. Di sognare
potenziali clienti intendo. Con il sonno, e il sogno, ho un rapporto idilliaco
e sottomesso. Cedo loro senza nemmeno opporre minima resistenza. Sì, lo so, in
questo sono un tipo facile: mi lascio sedurre all’istante. A volte mi
addormento nel tragitto che la testa compie per atterrare sul cuscino. E dormo,
con la medesima facilità, in ogni circostanza e luogo. Fusi orari? Mi fanno un
baffo. Aerei o treni? Perché fare lo schizzinoso! Hotel, pensioni, camere in
affitto, casa mia? Tutto fa sonno.
E con la medesima facilità passo
dal sonno alla veglia. Beh, magari con un po’ meno di facilità. A volte è come
se mi strappassero il sonno dalla faccia, ed è operazione che fa un po’ male,
perché ti lascia lì, a metà del ponte che di solito percorri di corsa, per
uscire fuggendo dallo stato di incoscienza e approdare, con un senso di
salvezza e soddisfazione, nel territorio della razionalità, che per me ha una
grande importanza. La sveglia, quelle rare volte che suona anticipando il mio
risveglio naturale, mi congela come un faro improvvisamente sparato sulla mia
corsa tra i due estremi del ponte. E mi rende più difficile recuperare la piena
lucidità.
Allora i primi secondi sono una
rissa tra i sogni che mi strattonano pretendendo che li traduca in vita, che li
sottragga alla dimensione mistica di profezie o di grida dell’inconscio che
vogliono mettermi in guardia da depositi incrostati e dimenticati in qualche
polveroso angolo del mio animo da dove possono comunque percolare il loro
veleno, inavvertito, nella quotidianità, e la mattina che mi viene incontro a
sirene spiegate, a luci squillanti, e non chiede, afferma. Perché i sogni
comunque sono un dono, anche quando imbarazzano parlando di donne che non
devono avere posto nella tua vita, e che spezzano il rigido controllo, fondato
sull’amore, che nella veglia razionale raramente si sbreccia. Ti lasciano in
eredità pensieri che è spreco dimenticare e non degnare di una riflessione,
anche di sbieco, tra un caffè e uno sguardo al cielo che oggi sembra voler
riempire il mondo tanto è blu, tanto è teso e lucido, ventoso, tiepido,
stirato.
Vincere queste battaglie
rassicura.
Guardai fuori dalla finestra della
cucina mentre sorseggiavo già il terzo caffè. L’erba del prato, che scivolava
via verso le autostrade nascoste dietro le torri di colori sgargianti, stava
lentamente sbiadendo, annunciando che l’ora legale sarebbe tramontata nel fine
settimana. L’aria si faceva più fredda. La luce avara. Fui sul punto di essere
travolto da una serie di pensieri, per lo più aggrottati, che sembravano essere
stati scatenati da un accenno timido di commozione, innescato dalla strana
combinazione dei colori di fronte a me e del sapore del caffè in bocca. Li
fuggii nascondendomi nella prima pagina del Corriere che si stiracchiava sul
tavolo, dove l’avevo abbandonato poco prima. Concentrandomi per l’ennesima
volta sul titolo che strillava di politica riuscii a non farmi scorgere da
quella muta di nere preoccupazioni che si persero per strade lontane da me.
Volevo iniziare la giornata con un sorriso, con una carica, con quella forza
che mi avrebbe permesso di tornare lì, in quella medesima cucina, quella stessa
sera, a vantare non solo una battaglia vinta, ma anche una svolta decisiva nel
corso della guerra, come uno sbarco in Normandia o il dono di un cavallo di
legno agli assediati. Volevo che quella sera fosse rossa di speranza, non per
il colore del contorno dei miei occhi. Per questo misi energia nel fare il nodo
alla mia cravatta migliore, di Marinella, un regalo natalizio di un cliente
che, nel momento in cui aveva immaginato di salire nella scala della nobiltà
aziendale da start up a leader di mercato, aveva preferito scaricarmi per
iscriversi al novero di coloro che scelgono i consulenti e i formatori solo tra
chi può pretendere cifre doppie giustificate da nomi altisonanti più che da
contenuti efficaci. Trovai curioso e quasi liberatorio che proprio quella
cravatta, che per me era stato l’ultimo dono prima della ghigliottina, fosse
quel giorno simbolo di riscatto, di voglia di vincere, di gloria sonante.
La camicia, ovviamente bianca,
profumava di successo. La addolcii con il mio profumo preferito, un gesto
apotropaico che risaliva ad un passato perso nella nebbia pre-crisi.
Prima di indossare la giacca del
gessato d’ordinanza, prima di partire per quella giornata che aveva i contorni
di Waterloo –e bisognava capire se avrei giocato il ruolo di Napoleone o di
Wellington- come ogni mattina,
feci l’ultimo giro sul web, per caricare le batterie, rallegrare l’umore, non
perdere il vizio di studiare.
Arrivai una manciata di minuti
prima dell’orario fissato. Per me la puntualità è importante, è un segno di
rispetto. Attesi in macchina consultando gli ultimi messaggi di posta
sull’iPhone. Un sorriso alla centralinista, la solita attesa nel salottino,
dove temo sempre ci siano telecamere nascoste per vedere come ti comporti
mentre aspetti.
È interessante guardarsi mentre si
aspetta, ci sono aziende dove prima di farti accomodare nella sala ricevimento,
a volte uno sgabuzzino che millanta questo titolo altisonante, ti tengono
seduto nella reception per alcuni minuti. Che fai? Leggi tutti i cartelloni
appesi, pensando che tanto arriva subito ed è meglio non farsi vedere
stravaccati sul divanetto, alla fine ti rassegni e ti siedi. E ascolti la
signorina che risponde al telefono, indirizza, smista, mette in attesa,
commenta seccata con la collega. Poi arriva un altro visitatore, e ti mette in
ansia: “sarà un concorrente? Chi deve vedere? Qualcuno più in alto? E perché
poi? E lo riceveranno prima di me?”. Quando qualcuno che arriva dopo di te,
viene accolto prima di te, si gira sempre a guardarti con aria di beffa, come
per dirti che lui sì che conta, che tu puoi essere chi vuoi, ma non sei
importante come lui. E tu ti vendichi immaginando che sia lì per vendere
quattro penne e risme di carta, mentre tu, eh tu, sei lì per le strategie, per
il successo aziendale. Si deve pure tenersi su in qualche modo. E ti fermi a
pensare quanta umanità varia ha accolto quel divanetto un po’ sbilenco, ragazzi
ansiosi che puntavano al primo lavoro, o cinquantenni che supplicavano dentro
di sé per avere una opportunità nuova per le loro famiglie; venditori
supponenti e altri in cerca dell’ordine per salvare l’anno e chissà forse anche
l’azienda. Clienti di poco conto, che si possono far aspettare senza creare
turbamenti agli year to date, e parenti di impiegati passati per un saluto o
per comunicazioni urgenti. A voler scivolare sotto la superficie ogni
situazione, ogni oggetto può parlarti della vita e aiutarti a mettere la tua
nella giusta prospettiva.
Immerso in simili pensieri mi ero
distratto quando la porta si aprì di scatto e irruppe lui. Solo. Più alto di
me. Asciutto. Un bel sorriso. Molto professionale.
Scambiammo convenevoli. Feci una
battuta sui suoi trascorsi. Sembrò apprezzare.
Iniziai a proporre l’agenda. Mi
interruppe.
“Siamo leader di mercato. Abbiamo sofferto meno dei concorrenti la
crisi. Qualche riduzione nelle esportazioni. Adesso con l’euro più debole
stanno ripartendo. Del marketing mi occupo personalmente insieme a mio fratello
Lorenzo”. Tace.
Mi verrebbe da chiedergli: “allora
perché hai accettato di vedermi? Per farmi perdere tempo?”. Mi trattengo. Se mi
ha ricevuto è segno che c’è qualche cosa che non va. Devo scoprirlo. Sono
tentato di fargli la domanda esplicita: “che cosa la preoccupa?”. E’ troppo
presto. Non ho ancora conquistato la sua fiducia. Meglio prenderla alla larga.
“Quali sono i vostri obiettivi di
crescita per il prossimo anno?”. Facciamolo parlare.
“Puntiamo a espandere la nostra presenza all’estero, specie in alcune
nazioni che al momento non ci soddisfano. E vogliamo rafforzare la nostra
immagine. Ci conoscono per una azienda innovativa, elegante. Con una solida
tradizione sì, ma aperta alla modernità. Avrà notato il nostro sito. Non è
all’altezza. Lavoreremo su questo. Il nostro è un prodotto banale in sé,
trovare modalità nuove non è facile. I nostri designer sono i migliori. Non
possiamo però basarci solo su questo per innovare”.
“E che cosa pensa di fare? Qual è
la sua strategia?”.
“Vorrei sfruttare di più il tema ecologico. Si fa un gran parlare
dell’acqua come risorse. Noi ci siamo in mezzo. Sto esplorando questo settore.
Ho visto all’ultima fiera soluzioni ridicole. Non voglio cadere negli stessi
errori di alcuni concorrenti che si vogliono tingere di una patina verde, ma
che in realtà non hanno fatto nulla di concreto”.
Interessante. Non ha ancora
trovato una soluzione.
“Ha ragione. Molti pensano che
basti esporre un cartellone, trovare uno slogan accattivante per aver risolto
il problema”.
“Esattamente! Vogliamo che si parli di noi come dei primi che hanno
affrontato il problema con serietà. I tecnici stanno studiando un sistema di
sensori che ad esempio blocchi il flusso delle docce quando sotto non c’è
nessuno. Per risparmiare acqua. Potrebbe essere un interessante argomento per
gli hotel ad esempio. Che al di là del tema ecologico potrebbero contenere i
costi. Siamo in fase di sperimentazione”.
Qui però posso fare poco.
Cerchiamo di riportarlo su un terreno a me più congeniale.
“Mi diceva dell’espansione in
paesi stranieri. Quali sono le difficoltà che incontra a raggiungere i suoi
obiettivi?”.
“La distribuzione in alcuni paesi è complessa. Bisogna trovare il giusto
equilibrio tra diffusione
centralizzazione dei depositi. E poi c’è la concorrenza: non solo quella
nostra diretta, ma anche quella dei distributori tra di loro. Vede il nostro
mercato è complesso: arriviamo al cliente finale attraverso canali molti
differenti tra di loro e non sempre è facile quadrare il cerchio”.
“Capisco. Immagino che tre siano i
vostri canali principali: le show room, gli installatori e la grande
distribuzione del fai-da-te. Beh certo, poi ci sono i costruttori”.
“Esatto. C’è spesso una guerra di prezzi tra questi canali e bisogna
differenziare i prodotti”.
Proseguimmo a parlare.
Intravvedevo una strada e iniziavo a capire che cosa lo preoccupasse realmente.
Da un lato una forza vendita non all’altezza, dall’altro la gestione dei
magazzini. Bene. Su questo potevo realmente dargli una mano.
Si infervorò nella descrizione dei
suoi prodotti più recenti. Si alzò di scatto. Mi invitò ad andare con lui in
magazzino per toccare con mano quanto fossero ben fatti. Tenendo in mano un
rubinetto snello, che riusciva a trasmettere al contempo una sana impressione
di solidità insieme ad un a sensazione di lievità poetica, come se la canna si
confondesse con il getto d’acqua che avrebbe liberato.
“Vede questo prodotto da bagno? Lei non immagina neanche la sua storia.
Partiamo dall’acciaio. E’ stato colato in una fabbrica buia e puzzolente, dove
la temperatura raggiunge spesso valori insopportabili. Una specie di antro di
vulcano. I colori sono bruciati. Nonostante si tratti di costruzioni alte anche
parecchie decine metri, tutto
sembra schiacciato. Lì dall’alto forno sgorga la colata rossa che poi diventerà
acciaio. E siamo solo all’inizio. La barra o il panetto è stato rinchiuso in un
container anonimo, ma ben schedato, e caricato nella stiva di una nave del
valore di milioni di dollari. Ha atteso che la pancia della nave fosse gonfia e
senza più spazi liberi e poi si è mosso, insieme a chissà quali altri oggetti o
materie prime, dalle acque cinesi che stanno di fronte al Giappone per
scivolare rapido e stabile lungo il mari una volta infestati dai pirati della
Malesia, noncurante di tempeste o bonacce, ormai armi spuntate della natura
contro di loro. Ha vista l’alba al largo di Macao, ha scorto di lontano, nel
tramonto le Maldive e le Laccadive, immagini fissate sulle retine di quei
marinai che in quel momento stavono fermi a fumare appoggiati al corrimano, e
che non hanno mostrato nei confronti di questo panorama lo stesso trasporto che
molte coppie avrebbero se il loro sogno di trascorrere anche una sola settimana
in questi paradisi turistici diventasse finalmente realtà. Ha sobbalzato,
forse, quando la nave si è infilata nel canale di Suez, varcando senza che
nessuno ne provasse profonda consapevolezza, il limite invisibile che separa
l’Africa dall’Europa. Quando il bastimento ha infine attraccato a Livorno,
nessuno dei controllori toscani si è minimamente soffermato a chiedere ai
naviganti che cosa avessero provato nel percorrere una rotta che li aveva messi
in collegamento con un mondo che non conoscevano o come avevano mangiato la
sera prima o se l’alba nell’Oceano indiano avesse scosso le loro anime oppure
li avesse lasciati indifferenti.
Nulla di questo. E poi il panetto viene caricato sul vagone del treno e
attraverso poi un furgoncino, presumibilmente, giunge alla foce del nostro
canale produttivo, poco lontano da Piombino, presso acque calme e torbide.
Qui il panetto deve essere di nuovo fuso per poter prendere la forma
dello stampo, realizzato secondo il disegno dei nostri tecnici. Solo allora la
massa perde la sua ordinata informità per diventare viva, per assumere i tratti
di questo capolavoro. Ma è ancora inutilizzabile finché, amorevolmente
trasportato da un camion, non ha percorso i trecento chilometri che separano la
nostra fabbrica siderurgica dal capannone dell’assemblaggio. Qui mani guantate
estraggono dagli scatoloni i corpi uno ad uno, con delicatezza. Li depongono
sui banconi dove le nostre addette li chiamano al loro compito. Si inserisce la
valvola, che ha seguito un cammino diverso, è stata lentamente composta
partendo da pezzi apparentemente sgraziati e tronchi, fino a diventare un
gioiello di tecnologia, un dosatore capace di miscelare l’acqua con saggezza
per offrire una miscela rassicurante. Le vedo le signore che accarezzano la
loro creazione quasi con affetto prima di incelofanarla e riporla nella scatola
che viene conservata nel magazzino. Riposano lì poco prima che gli esperti di
logistica li prelevino per affidarli agli spedizionieri che li conducono al
luogo dove verranno trovati da chi li cerca con tanta passione. Solo alla fine,
montati ad arte sul tubo, prendono vera vita e con gioia si lasciano guidare
per donare l’acqua. E chi sotto il getto mite si lava le mani, quasi ignorando
il prodigio che glielo consente, non sa nulla di tutto questo viaggio. Non
prova neppure a pensare che quell’aggeggio così elegante è stato un tempo sasso
e polvere. Non eleva nemmeno un pensiero agli operai sudati che spendono le
loro vite in paesi lontani, in grotte di cemento, per trasformare la terra. Non
prova un senso di gratitudine perché quel gesto così banale e stanco che compie
prima di sedersi a tavola, ha richiesto fatica e dolore, cura e delicatezza,
per condurre a lui, da chissà quale cima di montagna solitaria e cruda, quel
rivolo d’acqua che il nostro rubinetto gli guida con amore sulle mani sporche,
che chissà che cosa hanno toccato prima di sporgersi sul lavandino. Vede.
Abbiamo perso la coscienza di questo. La cosa mi fa un po’ soffrire. Noi invece
ce l’abbiamo ben presente. E’ la nostra vita. E’ un po’ come chiamare fuori
dalla pietra il Mosé”.
Questa è passione, pensai. Che
cosa posso fare per lui.
“E lei vorrebbe che questa storia
diventasse parte di ciò che vende, che le persone che scelgono i vostri
rubinetti ripercorrano nella loro coscienza questo tragitto per cogliere il
valore che ha permesso un gesto così automatico da diventare inavvertito. Che
quando le madri insistono con i figli perché questi si lavino le mani,
trasmettano loro questa consapevolezza profonda del lavoro dell’uomo e del suo
significato”.
“Sì. E’ quello che vorrei. Vorrei fare cultura, oserei dire teologia”.
“La capisco. Anzi la ringrazio per
avermi aperto gli occhi su questo mistero. Per avermi ricordato il gusto della
vita”.
Sembrò scosso da quello che avevo
detto. Per inciso era esattamente ciò che pensavo. Non stavo prendendomi gioco
di lui rispondendo ciò che si aspettava da me. Mi fissò a lungo, con uno
sguardo che sentii scendere fin nel più buio angolo della mia anima. Si
ritrasse da quella esplorazione con un’espressione in parte sorpresa in parte
rassicurata, sicuramente soddisfatta. Mi sorrise. Risposi senza eccedere, come
a confermare una scoperta a lungo attesa, con quella asciutta austerità che
connota molte amicizie maschili, dove le parole non solo non aiutano, ma
danneggiano, rivelando la falsità che cercano invano di nascondere.
“Torniamo in ufficio. Ci sono un paio di cose che può fare per me”.
Quando risalii in macchina
mezz’ora dopo, prima di spostare il pensiero sul Parioletti al quale stavo
andando a illustrare la mia proposta, mi soffermai a riflettere su quello
strano incontro, nato difficile e completato come una sinfonia. Provai un
piacere leggero. Avevo scoperto un uomo che credeva che anche produrre
rubinetti potesse avere un senso nell’ordine della vita. E che alla fine mi
aveva chiesto di fargli una proposta per un piano di miglioramento della sua
strategia commerciale, con particolare riferimento all’esportazione. Mi parve
però che più che trovare un nuovo cliente, avevo scoperto un potenziale amico,
una persona con la quale condividere il senso del lavoro.
Un buon inizio di settimana.
Capitolo settimo
Mia moglie dice che la memoria è
come un ripostiglio: quando sei giovane c’è un sacco di spazio che cerchi di
utilizzare al meglio. Man mano che i ricordi si accumulano, con fatica cerchi
di tenere un ordine logico, che ti permetta di ritrovare con facilità ciò che
cerchi. Ben presto però ti rendi conto che lo sforzo è inutile perché è molto
difficile decidere che cosa gettare via subito e cosa conservare per la vita,
per cui abbandoni l’idea di catalogare, di fissare un criterio e finisci per
buttare dentro alla rinfusa, cercando solo di trovare uno spazio ancora libero.
E’ chiaro che così facendo diventa pressoché impossibile ritrovare alla bisogna
un nome, un volto, un indirizzo, un’immagine, perché il cassetto dov’è
conservato è ormai sepolto sotto valanghe di altre immagini, altri indirizzi,
altri volti, altri nomi. E così, come in un solaio dove ormai non entri più per
evitare che dolore si aggiunga a dolore, smetti di cercare di ricordare. Fino a
quando un sapore, una voce improvvisa e inattesa, non schiude per qualche
strano gioco del destino, la finestra giusta. E allora ritrovi il filo, che ti
conduce dove non sai neppure e ti trovi davanti ad un ricordo tagliente,
lucido, senza neppure un velo di polvere, che parla secco e aspro al cuore, che
pretende attenzione.
Fu così che mentre mangiavo un
panino, seduto ad un tavolino esterno di un bar poco lontano dalla sede della
HAL servizi, fui aggredito da un’immagine che risaliva a qualche anno prima.
Mi vidi addentare un analogo
panino, seduto sopra una pietra, dietro le spalle a pochi metri da un dirupo
che si spalancava verso il ghiacciaio del Lyskam. Davanti potevo gettare lo sguardo sin oltre Gressoney la
Trinité, fin dove la valle sterzava affannata chiudendosi nel cozzare di due
pendii verdi di alberi fitti. A destra invece si scorgeva la valle di
Champoluc, tanto ariosa e solare quando quella del Lys sembrava timida e
ingobbita, a proteggere una intimità che pretendeva di nascondere chissà quali
misteri e tesori. Sotto i piedi una pietraia rossa, venata di marrone, dove
solo qualche bollo giallo e bianco svelava un sentiero che, se percorso fino
alla fine, avrebbe condotto al rifugio Quintino Sella, dopo circa un’altra ora
di cammino dal punto dove mia moglie ed io ci eravamo fermati, non solo per il
pranzo, ma anche per porre fine alla salita. Colpiva il silenzio, così serrato
che persino il vento non osava cantare tra i sassi, come atterrito di essere
l’unica voce a sfidare l’assenza di suoni. Mi afferrò il ricordo del sole, caldo senza essere torrido,
e gentile nello sciogliere il colore del cielo. Contemporaneamente mi salì al
cuore uno struggimento ruvido, tepore irritante e pistone rumoroso, senza che
ne capissi l’origine né lo scopo, perché tutto ha uno scopo, solo a trovare il
filo da dipanare, e mi trovai a vacillare, pur essendo seduto, come colpito con
vigore da una mano sulla spalla, una mano che scuotendomi volesse al contempo svegliarmi
e sfidarmi, volesse saggiare la mia solidità, e rassicurare, ma con goffaggine
tale da provocare invece un senso di incompiuta fragilità, il bisogno di
cercare un fondamento saldo. E mi sembrava di vivere tutto questo essendo
contemporaneamente lì, in quel bar lucido e banale, e seduto sulla cima della
montagna a guardare giù, ossia dentro di me, mescolando i due stati in una
confusa musica aurorale. Mi venne in soccorso una nuova immagine, talmente
assurda da trarmi fuori da quello stato indeciso e vacuo: mi vidi secco e
terso, il braccio destro teso, in modo da squadrare la mia figura, renderla
perfetta nella geometria di un corpo che si staglia secco tra la folla, mentre
sporgendomi intimavo ad un taxi di arrestarsi e caricarci sulla Fifth Avenue a
New York, poco oltre la Public Library, con una autorità che mai mi ero
scoperto addosso.
Fu un lampo.
Poi tutto scomparve nel momento in
cui una coppia vociante venne a sedersi nel tavolo alle mie spalle discutendo
di non so quale impegno di lavoro.
Mi alzai, e bevvi il caffè
direttamente la bancone. Mancavano dodici minuti all’appuntamento con
Parioletti. Pagai. Rimasi immobile al centro del locale, fingendo di guardare
nel portafogli, mentre in realtà cercavo di trovare in me la forza per affrontare
ciò che sarebbe successo di lì a poco.
Perché sentivo che qui sarebbe
cambiato qualche cosa. L’incontro recente con Pedretti, mi sembrava stessero
indicando una strada, una via di fuga da quel deserto che la crisi finanziaria
aveva steso intorno a me. La crisi finanziaria poi, a pensarci bene era da
quando avevo intrapreso la libera professione e messo su il mio studio da
consulente. Perché questo millennio, così atteso da celebrarlo con sfarzi da
satrapi orientali di prima di Cristo, sembrava essere stato più tarlato dal
millennium bug che non dalle danze sui resti del muro di Berlino. Invece che
liberare la fantasia e lanciarci verso un futuro senza più barriere, sembrava
roso dentro da un verme che ne risucchiasse l’anima. Perché questa era l’impressione
del primo decennio: una scorza vuota che implode lentamente su un nucleo che
marcisce senza consapevolezza.
Che cosa ci aveva portato infatti
il Duemila se non la rapida fine delle sicurezza in meno di dieci anni. Che le
crisi succedutesi erano proprio lì per scrollare l’albero del vatuttobene al
quale ci eravamo abbarbicati con violento e insano desiderio. Che cosa ci aveva
sottratto?
1. La
sicurezza economica, che ormai sapevamo in balia di fattori incontrollabili, ai
più per lo meno.
2. La
sicurezza finanziaria, con risparmi di una vita esplosi in una qualcune delle
bolle recenti: e-commerce, immobiliare, bondargentina.
3. La
sicurezza sanitaria, con febbri aviarie e suine e chissà che altro, che ci
mancavano solo quelle floreali per metterci a terra.
4. La
sicurezza che la natura fosse nostra alleata o per lo meno sodale, mentre
invece continuava ad attentare a noi con scrolloni e inondazioni da ogni lato.
5. La
sicurezza tout court, che c’era da ringraziare se il sole fosse calato sul
pianeta senza lo che sfregio di un attentato avesse insultato il giorno, e ogni
mattina uscivi con dentro l’ansia, sommessa e nascosta, che alla sera potevi
contarti e mancava qualcuno.
Questo era il mondo che ci aveva
regalato il nuovo splendido millennio. Glielo avrei restituito volentieri in
cambio dalla rassicurante piattezza degli anni Settanta.
Eppure, in questo mondo
impossibile, per dirla con Memo Remigi, che pochi sanno chi sia ma Wikipedia
può aiutare, ora vedevo un filo, un sentiero. Una voce mi sussurrava, modesta e
coraggiosa, che cera comunque un senso, e una via d’uscita.
Per questo baldanzosamente
attraversai la strada, sorridendo mi presentati, e con calore salutai
Parioletti e i soliti due che mi attendevano per la presentazione della mia
proposta.
Capitolo ottavo
“Costa troppo”.
Era scontato. Che avrebbe comunque
detto così. Fa parte del ruolo. E di una certa ignoranza molto diffusa. Non
dico che tutti gli imprenditori italiani siano ignoranti: ci mancherebbe altro!
Ci sono molti veri geni tra di loro: di quella genialità che sovrasta la logica
perché scardina l’analisi, la razionalità per esaltare l’intuito. Come se fosse
possibile aggrapparsi ad un raggio di sole per inseguirne la curva e vedere con
occhi diversi tutto il creato fino ad inventare qualche cosa di nuovo.
Chapeau! Li invidio di quella
invidia bianca, sana, depurata dalla rabbia.
C’è però che poi nel momento in
cui scendono da quel raggio di sole, si calano in testa il cappello del duro,
come se ci dovesse essere un Humphrey Bogart al comando di ogni azienda. E
devono sempre far vedere chi comanda. Non solo: ma ritengono spesso che
l’esercizio di questa facoltà si attui in modo specifico nella gestione del
denaro. Ecco perché qualunque proposta costa sempre troppo.
Non mi ha lasciato quasi neanche
sede il Parioletti, ha iniziato a chiedermi “quanto mi prende?”.
Ho risposto da manuale: “Guardi,
l’investimento che le indicherò alla fine è ampiamente recuperato nell’arco dei
primi due mesi, secondo il piano che le vorrei illustrare”.
“Sì, ma quanto mi costa!” ha
insistito.
“Se permette vorrei riservarmi di
svelare l’investimento richiesto dopo averle, brevemente si intende, raccontato
come metterlo a frutto e quanto guadagno può produrre”.
“No. Mi dica prima quanto vuole”.
Lo ha detto sporgendosi in avanti e tirando i lineamenti, come a voler assumere
ancora di più il controllo della situazione. Ricordo che pensai “adesso o si
accende una sigaretta sotto il cappello a falde larghe che estrae con colpo
teatrale da sotto il tavolo, o mi prende a cazzotti”.
“50.000 euro”, ho allora sparato:
a voce alta, senza abbassare lo sguardo. È lì la prima vittoria: se mostri di
avere quasi vergogna per ciò che stai chiedendo sei finito.
“Costa troppo” mi ha appunto
risposto, quasi schiantandosi sulla sedia, come se l’avessi pugnalato di
nascosto. Il suo viso era una maschera digitale sulla quale due espressioni si
alternavano a rapidità impressionante: la delusione, come per essere stato
tradito, e la stizza per sentirsi raggirato.
I due angeli custodi ovviamente
tacevano: Franchi, il direttore operativo, tiene il viso abbassato, non so se
prova più vergogna per la sceneggiata del suo capo, che deve ricordargliene
altre simili con lui imputato, o se per cercare qualche colpo ad effetto che
faccia aumentare la stima del Parioletti. Lei, la Lucchini, come venere
imperturbabile, mi fissa con un’aria birichina che sembra rimproverare
dolcemente “non me lo faccia arrabbiare dai, che poi una soluzione la
troviamo”.
“Ha ragione” dico io soprendendo
tutti. “Infatti come vedrà non è questa la cifra che le propongo di investire
per valutare i vantaggi economici che questo progetto può produrre”. Sto
rischiando molto, lo so: mi è venuto così, di dirgli una cifra a caso. Beh non
proprio a caso.
“Mi sta prendendo in giro?” soffia
il Parioletti.
“Dottore, e come potrei mai? Le ho
indicato la cifra che il progetto potrebbe raggiungere globalmente,
l’investimento globale dei primi sei mesi se e solo se l’intervento iniziale
dimostrerà, come sono convinto, di dare frutti molto più abbondanti in termini
di margini operativi. A quel punto non si tratterà più di quanto si investe, ma
quanto questo investimento rende e in che tempi. Non le pare?”
La domanda mi è venuta bene:
adesso lascio a lui la sentenza. Mi sono messo nelle sue mani. E ogni re, per
quanto severo e giusto, non può non avere una vena di misericordia. Basta non
appellarcisi in modo tronfio, sguaiato, plateale.
Infatti abbozza un sorriso, alla
Bogart appunto, e finalmente dice, mentre le due figure ai suoi lati sembrano
stirarsi e accendersi di speranza: “Mi faccia vedere che cosa ha preparato”.
Notato bene il “mi faccia” che è
molto diverso da “ci faccia”?
Si comincia.
“Come ci siamo detti nel nostro
incontro, l’obiettivo del progetto è di incrementare i margini. Abbiamo visto
come sia opportuno capire con dettaglio quale sia il processo che porta dal
contatto con il nuovo cliente alla gestione della rendicontazione post evento
fino alla fidelizzazione. In particolare ci siamo detti che una delle priorità da affrontare è
quella del passaggio di consegne”.
Interrompe. “Va bene questo lo so.
Venga al dunque”.
Questa è una debolezza: cerca di
fregarmi fingendo che sa già tutto in realtà mostra solo una accesa curiosità
per la soluzione. A questo punto devo procedere secondo lo schema per superare
le resistenze:
1.
Concordare il problema: mettersi d’accordo su
quella che è la difficoltà da affrontare
2.
Concordare la direzione della soluzione:
ottenere l’assenso sulla direzione da privilegiare
3.
Concordare la soluzione: mostrare come la soluzione
proposta è in grado di gestire anche gli effetti collaterali
Iniziati dunque a descrivere la
situazione incasinata così come l’avevano descritta loro nell’incontro
precedente.
“Certo dr. Parioletti: ciò che
vogliamo superare è la riduzione dei margini. Dobbiamo lavorare su due aspetti
per far crescere i profitti: da un lato migliorare la percezione che i clienti
hanno di HAL così da non indirizzare le trattative solo sullo sconto, che è un
problema che sentite assillante, così mi avete detto. E poi ridurre i costi,
specie quelli derivanti dalle inefficienze interne dovute ad un livello di
collaborazione non adeguato. Le sembra che questo identifichi la situazione di
partenza e l’essenza del problema da superare?”.
“Uhm. Sì.”, grugnisce in risposta.
Alzando appena le labbra che si torcono curvando gli estremi verso il basso in
una simulazione perfetta della faccina scontenta. Se fossi Carl Lightman di Lie
to me esclamerei che questa è una dichiarazione controfirmata di sconforto. Sa
bene che questo è il problema. E lo imputa all’incapacità dei suoi uomini.
“Bene dr. Parioletti, allora
quello che farei per risolvere il problema e aumentare i profitti è lavorare su
due piani paralleli:
1.
Aumentiamo i prezzi lavorando sul posizionamento
e la percezione della qualità di HAL tramite l’azione dei venditori
2.
Tagliamo le inefficienze che fanno spendere di
più e perdere occasioni di riduzione di costi con i fornitori esterni.
Che ne dice? Le sembra che questa sia la direzione da
prendere?”.
Riflette: dal brillio degli occhi
so che è d’accordo e che anzi è soddisfatto del lavoro fatto si qui. Aspetta
perché crede che così può conquistare potere negoziale. Infatti, dopo aver ben
riflettuto, cercato le parole, mi risponde:
“Certo. Non mi sembra peraltro che
sia un colpo di genio. Che cosa potremmo fare di diverso?”.
“Sono d’accordo con lei, dottore.
Una volta chiarita la situazione di partenza, capire la strada da prendere è
stato facilissimo”. Giochiamo di fioretto: ha capito benissimo che cosa intendo
dire. Prima che glielo facessi dire, che lavorassi con lui nell’incontro
precedente, non sapeva neanche qualche fosse il loro problema. Sapeva solo che
non guadagnava quanto desiderava. Facciamogli capire che gli sto già dando del
valore aggiunto. E’ costretto ad annuire, con un leggero e deciso cenno del
capo.
“Bene, dunque a questo punto ecco
come intendo procedere:
1.
Dobbiamo capire quale sia il processo di
vendita, non solo nella sua struttura, ma anche nelle relazioni e nella
comunicazione che avviene tra venditori e clienti. Questo serve per capire come
migliorare non soltanto nel modo di affrontare la vendita e di posizionare HAL,
ma anche per capire come ridurre i costi delle fasi connesse;
2.
al contempo studieremo che cosa avviene
internamente un volta che il cliente è stato acquisito e si passa alla fase
operativa.
Tutto questo impegnerà circa una
decina di giorni di lavoro tra incontri con le persone che voi mi indicherete
per raccogliere i dati, affiancamenti con i venditori per capire come agiscono
a fronte cliente, analisi dei dati ed elaborazione di una fotografia e piano di
azione conseguente. In meno di un mese saprà esattamente come fare per
aumentare i profitti. A quel punto sapremo anche quali strade prendere e quali
priorità scegliere per tradurre in realtà il miglioramento dei margini.
Nel documento trova i dettagli di
questi due filoni di indagine che spiegano e giustificano come agiremo.”
“E adesso che cosa costa me lo
dice?”.
“Quindicimila euro più le spese”.
“Lei è matto. Lei non ha capito”.
Sorrido e resto in silenzio. Una
delle tattiche negoziali più comuni è quella di cercare di provocare. Con una
aggressione verbale. Come questa. Quindi tacere. Lascialo andare avanti. Il
silenzio è difficile da reggere. Infatti:
“Ecco, vede. Non ci siamo mai
avvalsi di consulenti in precedenza. Non ne abbiamo mai avuto bisogno. E anche
adesso onestamente. E quindi non ho certo una cifra a budget di questa entità.
E’ un costo che non riesco a giustificare….”. Adesso è lui a tacere. Mi guarda
fisso. Attende che io gli dia ragione.
Delle due l’una: o anch’io sono
convinto che sto sparando alto, e allora lo si leggerà nella mia voce, oppure
ho la certezza di fargli un piacere, e allora terrò duro. Spesso si cade
proprio su questo: quando il cliente spara “è troppo caro!” il venditore dentro
di sé si accascia e pensa: “mi ha beccato! Lo dicevo anch’io che avevamo
esagerato. Se ne è accorto!”. Se pensi così sei andato, sei fuori.
Io ci credo. E ho fame. Ho la
necessità di tenere a galla la barca. Non mollo per una tecnica negoziale così
banale.
“Come le dicevo, neppure io saprei
giustificare un costo così. Infatti quello che le sto proponendo non è una
uscita di denaro. E’ un investimento. E’ la strada più diretta per affrontare i
problemi che lei ha riconosciuto come prioritari e incrementare
sistematicamente i margini. Capisco che lei non mi conosca e che possa prendere
queste mie parole come una millanteria. Per questo lei si è fidato del dr.
Magnaga che le ha proprio riferito il vantaggio economico che ha ottenuto dalla
nostra collaborazione”.
“Sì, ma…” abbozza. I suoi lo
stanno seguendo attenti: si sono sporti in avanti.
“Sì, ma.. quindicimila sono
quindicimila!”
“Che cosa la preoccupa dr.
Parioletti?”
“Beh che lei non riesca a farcela,
non dico per demerito suo”.
“Quindi mi sta dicendo che non
intende assumersi il rischio imprenditoriale da solo?”.
“Certo, io sono qui a rischiare e
lei, lei comunque vada porta a casa… non mi pare equo”.
Siamo passati al secondo livello,
quello dell’equità: dopo l’aggressione, la tattica negoziale passa ad usare lo
stato della relazione come strumento persuasivo. Adesso mi sta dicendo che non
sono corretto e buon amico se lascio rischiare solo lui.
“Capisco il suo punto di vista. E’
ragionevole mostrare un intelligente scetticismo, non basato sulla sfiducia, ma
sull’imprevisto. Un altro modo per vedere la situazione può essere questo: se
il raggiungimento insoddisfacente dei risultati non dipende dalla mia
professionalità, che quindi è all’altezza delle sue aspettative, ma da
imprevisti, o da condizioni variabili del mercato, non ritiene equo che il mio
impegno venga comunque riconosciuto? Quando la sua struttura con la massima
efficienza e competenza organizza un evento e questo per ragioni indipendenti
dalla sua volontà, non risulta completamente in linea con le aspettative del
cliente, forse è costretto a ridurre la cifra l’investimento richiesto al
cliente? Sarei sopreso se fosse così”.
“No, ma che c’entra. Il nostro
lavoro…” inizia. Poi si ferma, vede che lo guardo sorridendo. E tenta la terza
carta negoziale.
“Senta. Io voglio lavorare con
lei. Mi venga incontro. Posso garantirle che questo è il primo pezzo di un
progetto molto più ampio. Dimostri di tenere al futuro e mi faccia una
riduzione e vedrà che lavoreremo a lungo insieme”.
Terza fase: sei il mio eroe, fai
il bravo e non ti lascerò più.
Potrei scegliere di andare avanti
nel braccio di ferro. Scelgo invece di calare l’asso della controfferta.
“Mi rendo conto del suo desiderio
di lavorare a lungo insieme e gliene sono grato. La considero una dimostrazione
di fiducia. Proprio per questo, e perché non abbiamo mai lavorato insieme,
credo che sia possibile trovare una strada che soddisfi entrambi. Per lei è
importante ridurre il budget di questo primo investimento e potermi conoscere
meglio. Per me è importante consolidare il rapporto, e poter contare sulla
soddisfazione dei clienti per farmi conoscere. Questo è quello che le propongo:
1.
una riduzione di circa il 25% in questa forma:
a.
intorno al 15% applicato a questo contratto
b.
10% come buono riduzione da applicare alla
seconda fase di questo progetto
2.
in questo modo la cifra totale che investirà per
questo progetto è di undicimila cinquecento euro: dei tredicimila che le
fatturerò millecinquecento euro verranno recuperati nella seconda fase del progetto
In cambio le
chiedo due cose:
1.
la fatturazione avverrà in due tranche: ottomila
euro all’ordine e cinquemila alla consegna del piano di soluzioni, quando le
fatturerò anche le spese
2.
se sarà soddisfatto del lavoro, come non dubito
che sia, le chiedo di presentarmi ad un altro imprenditore che lei conosce così
come Magnaga mi ha presentato a lei.
Che cosa ne dice? Lo trova equo?”
Parioletti si appoggia allo
schienale della poltrona, incrocia le dita e arriccia le labbra. Guarda prima
la sua assistente, a lungo, e questa la dice lunga sulle relazioni interne, poi
gira lo sguardo verso Franchi e si toglie lo sfizio di sconfiggere qualcuno:
“Franchi, lei e Caniato fate in modo che questo regalo che vi faccio non vada
sprecato. Va bene. Sarà felice dr. Foresi, mi aspetto che faccia un buon
lavoro. Quando comincia?”.