giovedì 8 marzo 2012

E arriva la vergogna



 “Non è per lo smacco professionale”, mi sussurra adesso, con gli occhi arrossati, “sì, anche quello, ma io ho la certezza, corroborata dalla fiducia e dal sostegno di tutti coloro che ho incontrato in questo progetto, gente del settore, mica come questi incompetenti”. Scuote la testa.
“E’ per il rancore che provo dentro e che non riesco a vomitare fuori, per liberarmene del tutto. Questo mi fa male. Mi brucia dentro e consuma”.
Lo capisco, lo si vede dai suoi occhi nei quali si mescola sia il fumo sia il bruciore, così che sono lucidi non di commozione né di dolore, ma di tutto, insieme a rabbia e vergogna.
“Sì, vergogna”, mi dice come se avesse capito i miei pensieri, “perché non lo vorrei questo rancore, lo vorrei gettare a terra e calpestare, fosse anche solo per orgoglio, per quel senso di vanitosa superiorità che coltivo e che così spesso mi deride. Ma non ci riesco, e quando il pensiero incappa in schegge impazzite –una targa, un mozzicone di nome, una scarpa, un ricordo- e si incaglia in un pensiero che scivola all’indietro, mi sale alla bocca come un rigurgito acido e con esso quel pianto violento e ribelle. E soffro”.
Posa un attimo lo sguardo, come per trovare non so se riposo, slancio o nuove parole, e riprende con vigore, e più lucidità.
“Ma che cosa credevano, che si arrivasse a Times Square, si aprisse la bancarella e tutta la gente a correre per acquistare? O che bastasse fare il loro nome, uno confuso tra i tanti, quasi una brutta copia di quello più famoso, perché piovessero ordini? Acquirenti entusiasti con rotoli di banconote pronti a dare senza garanzie? Ma come fa uno a chiamarsi imprenditore se non fa questi conti dopo che aveva millantato di voler aprire negozi monomarca in tutto il mondo? Che non sa neanche che cosa è un business plan o una analisi di mercato?”.
Scuote la testa.
“Scemo io! Che ho creduto più alla mia voglia che alla loro affidabilità”.
“Ecco, e che cosa hai imparato da questo?”.

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