“Non è per lo smacco professionale”, mi sussurra adesso, con
gli occhi arrossati, “sì, anche quello, ma io ho la certezza, corroborata dalla
fiducia e dal sostegno di tutti coloro che ho incontrato in questo progetto,
gente del settore, mica come questi incompetenti”. Scuote la testa.
“E’ per il rancore che provo
dentro e che non riesco a vomitare fuori, per liberarmene del tutto. Questo mi
fa male. Mi brucia dentro e consuma”.
Lo capisco, lo si vede dai suoi
occhi nei quali si mescola sia il fumo sia il bruciore, così che sono lucidi
non di commozione né di dolore, ma di tutto, insieme a rabbia e vergogna.
“Sì, vergogna”, mi dice come se
avesse capito i miei pensieri, “perché non lo vorrei questo rancore, lo vorrei
gettare a terra e calpestare, fosse anche solo per orgoglio, per quel senso di
vanitosa superiorità che coltivo e che così spesso mi deride. Ma non ci riesco,
e quando il pensiero incappa in schegge impazzite –una targa, un mozzicone di
nome, una scarpa, un ricordo- e si incaglia in un pensiero che scivola
all’indietro, mi sale alla bocca come un rigurgito acido e con esso quel pianto
violento e ribelle. E soffro”.
Posa un attimo lo sguardo, come
per trovare non so se riposo, slancio o nuove parole, e riprende con vigore, e
più lucidità.
“Ma che cosa credevano, che si
arrivasse a Times Square, si aprisse la bancarella e tutta la gente a correre
per acquistare? O che bastasse fare il loro nome, uno confuso tra i tanti,
quasi una brutta copia di quello più famoso, perché piovessero ordini?
Acquirenti entusiasti con rotoli di banconote pronti a dare senza garanzie? Ma
come fa uno a chiamarsi imprenditore se non fa questi conti dopo che aveva
millantato di voler aprire negozi monomarca in tutto il mondo? Che non sa
neanche che cosa è un business plan o una analisi di mercato?”.
Scuote la testa.
“Scemo io! Che ho creduto più alla
mia voglia che alla loro affidabilità”.
“Ecco, e che cosa hai imparato da
questo?”.
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