sabato 3 settembre 2011

La vendita referenziata funziona - seconda puntata

Prossimo post Lunedì 5 settembre


E poi voleva dire che quell’idea di chiedere aiuto ai clienti per cercare nuove opportunità stava funzionando. Ricordavo quando avevo preso la risoluzione di tentare anche questa soluzione. Ero solo sdraiato sul setto di una sobria camera d’hotel a Cosenza. La finestra mezza socchiusa, compromesso tra il desiderio di cacciare fuori il fumo della mia pipa e il tentativo di tenere fuori il caldo avvolgente del tardo pomeriggio. Leggevo un saggio di una autrice americana che si definisce la regina delle referenze. Ondeggiavo indeciso tra l’applicazione dei suoi consigli e il timore che si trattasse della solita americanata, quando fui colpito da una parola, una sola banale parola: fiducia. Chissà quante volte l’avevo letta prima di allora. Eppure lì, nel clima unto della stanza, la pipa che sbuffava lenta e morbida, la luce che entrava di taglio, tra le strisce della tapparella semi-abbassata, e segava in due le mie gambe stese sul letto, lì in quel momento mi sembrò quasi una invocazione, una chiamata, una richiesta. E mi ero deciso. Vincendo così la mia insospettabile timidezza, avevo deciso di mettere in pratica la vendita referenziata. Mi ero preparato il discorso seguendo le istruzioni del saggio. E tra i primi contatti mi ero rivolto proprio al Magnaga. Quindi l’aveva fatto, mi aveva aiutato.
Pensavo a queste cose e cercavo di mettere ordine sia al passato, per capire in quale modo avrei potuto imparare dall’esperienza così da poterne trarre vantaggio, sia al futuro, per evitare ogni rischio di errore. E mi irritavo con me stesso per l’impossibilità di trovare un linguaggio che non mi facesse piombare nella banalità di quelle parole sdrucite e scucite, ereditate da culture straniere, che avevano imperiosamente preso possesso della nostra lingua, ossessionando sia chi le usava con tono volgare, per ammantarsi di un volano di esteromania, sia chi le pronunciava con vergogna e pudore.
A volte la mia mente restava imprigionata in questi circoli viziosi. Non ne capivo il motivo. Li sentivo come amici pericolosi, capaci di stimolare il pensiero, ma anche di condurlo verso deserti dai quale sarebbe stato impossibile fuggire. C’era sempre stata qualche opportuna interruzione che mi aveva salvato sulla soglia della trappola. Quella volta fu lo sfarettare dei una Mercedes lanciata ben oltre il consentito, giù per i declivi secchi e arrotondati, che voleva a tutti i costi superarmi. Lo feci passare appena possibile.
Che cosa dovessi fare quel venerdì seguente era presto detto: nulla. Il momento non era dei migliori e se ero riuscito a rimanere a pelo d’acqua fino  a luglio, iniziavo a sentirmi trascinare verso il fondo dall’assenza, quasi completa, di nuovi progetti. Il che ovviamente era fonte per me sia di immediata preoccupazione sia di domanda pungente sul futuro. C’era un futuro? In quella professione? Poiché cercavo risposte nei messaggi che la vita mi mandava, più che in me, atteggiamento che peraltro coltivo ancora, ritenni che la chiamata del Pariolini  fosse un segno che sì, c’era ancora spazio per continuare a svolgere quello che alcuni taglienti amici definivano “un hobby poco costoso” e che per la mia famiglia avrebbe dovuto essere la fonte di futuro. 









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